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Giuseppe, Ministro dell’Agricoltura del Faraone, Caposcuola della Federal Reserve e del Fondo Monetario Internazionale

Se non si modifica il modello economico puoi fare tutte le rivoluzioni del mondo ma non se ne uscirà mai fuori, pertanto conoscere prima di tutto come funziona la faccenda è la prima cosa fondamentale da fare prima di prendere una qualsiasi iniziativa.

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Staff Toba60

Giuseppe, Ministro dell’Agricoltura

Molto, molto prima di Freud, un tizio di nome Giuseppe si fece una reputazione come interprete di sogni. Così, quando tutti i dottori di ricerca dell’Egitto fallirono, il Faraone mandò a chiamare questo mago e gli sottopose il rompicapo che una notte era uscito dal suo subconscio: qualcosa su sette vacche magre e sette grasse.

Una nota biografica su questo Giuseppe è d’obbligo. Fin da ragazzo si era dimostrato dotato di doti speciali, ottenendo agli occhi del padre la preferenza su un gruppo di fratelli. Ciò suscitò l’invidia e il risentimento della confraternita – che probabilmente considerava Giuseppe una violazione del principio secondo cui tutti gli uomini sono creati uguali e si ingegnarono per ristabilire la parità nella mediocrità togliendolo dalla circolazione. Per circostanze subdole fu messo al servizio di Potifar, un pezzo grosso dell’Egitto, che era molto lontano da casa.

Un uomo così intelligente non poteva essere rifiutato. Salì rapidamente a capo della proprietà di Potifar. A questo punto, la sua carriera fu quasi stroncata dalla perfidia di una donna; cioè, la moglie di Potifar (probabilmente una donna casalinga e “incompresa” dal coniuge) cercò di sedurre il suddetto Giuseppe, ne fu respinta e, come una donna disprezzata, incastrò il suo giullare. Potifar gettò Giuseppe in prigione.

Fu qui che Giuseppe si mise in luce. Tra i suoi compagni di cella ce n’erano due che avevano problemi con i sogni. Giuseppe si applicò a questi enigmi e li sciolse con sorprendente esattezza. Se ne ricordò uno dei prigionieri che, una volta liberato, si mise a lavorare per la famiglia del Faraone e, quando seppe che il suo padrone era immerso in problemi del subconscio, gli raccomandò il rabdomante delle segrete.

È così che Giuseppe fu chiamato a palazzo. Rendendosi conto che uno psichiatra impresentabile non gode di alcun prestigio, si diede una sistemata, si rasò persino le insegne della sua tribù e offrì i suoi servizi all’amministrazione in difficoltà. Rapidamente ha trovato la risposta. Non c’era nulla di vero. Il sogno, disse, indicava chiaramente che l’Egitto stava per sperimentare il ben noto ciclo economico, talvolta chiamato “boom and bust”. Come lo sapeva? Come faceva a saperlo? Diceva che la conoscenza gli era arrivata per rivelazione divina, molto più affidabile della saggezza della scuola di economia di Harvard.

A questo punto, mentre il Faraone era sbalordito dalla positività della sua previsione, Giuseppe dimostrò il suo vero coraggio. Ha lanciato un piano. È vero, disse, che il boom dei sette anni si sarebbe sicuramente abbattuto sul regno, ma il crollo non era così inevitabile; Geova poteva esserne esonerato con il semplice accorgimento di costituire una riserva durante gli anni di abbondanza. Per eseguire questo lavoro, il Faraone avrebbe dovuto trovare un segretario all’agricoltura capace. Il piano e il segretariato non avevano nulla a che fare con l’enigma che era stato chiamato a svelare, ma Giuseppe lo scartò ugualmente e si apprestò a ritirarsi.

Al Faraone, però, venne in mente che una mente che aveva tutte le risposte non doveva languire nella prigione di Potifar. Così, sul momento – la conferma da parte del Senato non era necessaria a quei tempi – nominò il sorprendente Giuseppe come suo segretario all’agricoltura. Non essendoci una Costituzione da giurare, né una Bibbia da baciare, il Faraone fece in modo che la nomina rimanesse valida mettendo il proprio anello con sigillo alla mano di Giuseppe e una catena d’oro massiccio al collo. In mancanza di un’automobile, al nuovo dignitario fu assegnata una carrozza ufficiale. Senza dubbio, anche se la cronaca non lo riporta, Giuseppe doveva avere un grande ufficio in cui lavorare, con molti assistenti e segretari, perché si parla di molti sorveglianti.

I suoi fratelli probabilmente consideravano Giuseppe una violazione del principio secondo cui tutti gli uomini sono creati uguali e hanno escogitato di ristabilire la parità nella mediocrità togliendolo dalla circolazione.

D’ora in poi, Giuseppe non aveva più bisogno di interpretare i sogni; era un amministratore, con un piano da realizzare. Poiché l’economia era completamente agricola, la sua posizione lo rendeva il vero capo del Paese, il commissario supremo. La prima cosa che fece fu approvare le leggi; senza di esse nessun piano può funzionare. E la prima legge in agenda fu, naturalmente, una legge fiscale. Un quinto di tutto ciò che questi contadini scialacquatori dovrebbero produrre, durante gli anni dell’abbondanza, deve essere loro sottratto e messo sotto chiave. Si dice che questa imposta sul reddito del 20% abbia fruttato un bel po’; il grano si accumulò “come sabbia del mare” e senza dubbio c’era una carenza di bidoni, fienili ed elevatori, perché “era senza numero”.

A tempo debito, come da profezia, arrivò la depressione. Non è certo se questa calamità sia stata causata dalla sovrapproduzione o dal sottoconsumo, e a quel tempo i dotti professori non avevano ancora scoperto la teoria del punto solare e nemmeno quella della velocità del denaro. I maghi di quell’epoca non avevano potuto beneficiare di corsi di specializzazione in economia. Il racconto, così come ci è pervenuto, fa riferimento a una “carestia”, ma non ci è dato sapere se la penuria fosse dovuta alla siccità, a una pestilenza o a un altro incidente imprevedibile o, forse, al costante prosciugamento dell’economia da parte di sette anni di pesanti tasse. Da ciò che segue nel racconto, è possibile che il pianificatore dei sogni abbia previsto la conseguenza del suo piano di tassazione: l’abietta sottomissione del proletariato egiziano.

In ogni caso, la fame si abbatteva sul paese del faraone. Il popolo si recò dal segretario all’agricoltura e lo pregò di restituire il grano che gli aveva sottratto. E lui lo sgusciò via? Certo che sì, e a un prezzo. Prese i loro soldi e, quando non ne ebbero più, prese il loro bestiame. “Giuseppe diede loro del pane in cambio dei loro cavalli, delle loro greggi, dei loro armenti e dei loro asini, e diede loro del pane in cambio di tutto”.

Il popolo soffriva ancora la fame, come era naturale, perché il capitale era scomparso e senza capitale la produzione è scarsa. Come sappiamo oggi, sotto il saggio regime di Giuseppe si era instaurato il capitalismo di Stato e le masse affamate non potevano fare altro che chiedere lavoro allo Stato, all’unico salario che era disposto a pagare, cioè la sussistenza. Si offrivano come “servi del faraone” in cambio di pane.

Allora Giuseppe disse al popolo: “Ecco, oggi vi ho portato la vostra terra per il Faraone; ecco, qui c’è del seme per voi e voi seminerete la terra”.

Nel linguaggio comune ciò significa che aveva nazionalizzato la terra e il lavoro dell’Egitto.

Il piano del sogno funzionò a meraviglia – per il Faraone e il suo segretario all’agricoltura. C’è ragione di credere, tuttavia, che alcuni dei proletari fossero turbati da un principio morale: il diritto dell’uomo alla sua proprietà. La cronaca non ne fa menzione, ma parla di una migrazione di contadini da un capo all’altro della terra, per ordine di Giuseppe. È possibile che gli schiavi si siano ribellati? È possibile che Giuseppe abbia fatto ricorso alla ben nota epurazione migratoria? Non c’è alcuna dichiarazione in tal senso, ma non c’è nemmeno una spiegazione per lo spostamento della popolazione, e in assenza di commenti esplicativi si può fare un’ipotesi.

“Da ciò che segue nel racconto, è abbastanza possibile che il pianificatore del sogno abbia previsto la conseguenza del suo piano di tassazione: l’abietta sottomissione del proletariato egiziano”.

D’altra parte, si racconta che una delegazione di egiziani si recò da Giuseppe e dichiarò: “Tu ci hai salvato la vita; fa’ che troviamo il favore del mio signore e saremo servi del faraone”. A dimostrazione del fatto che il proletariato si era rassegnato al collettivismo (visto che era l’unico modo per cavarsela in questo mondo) e si accontentava di qualsiasi sicurezza che il segretario avrebbe fornito.

Giuseppe, tuttavia, dovette fare qualche concessione alla proprietà privata, forse per incoraggiare una maggiore produzione imponibile; restituì ad alcuni degli egiziani le terre che aveva sottratto loro nelle loro avversità, su base di affitto. L’affitto? Un quinto di tutta la produzione annuale. Grazie a questo atto di politica ben congegnato, informa lo storico Flavio Giuseppe, “Giuseppe stabilì la propria autorità in Egitto e aumentò le entrate permanenti di tutti i monarchi successivi”.

Sebbene i monarchi e i commissari che si succedettero si comportarono bene con il piano introdotto da Giuseppe, sembra (secondo gli storici successivi) che esso abbia gettato sui proletari una piaga morale, cosicché quando i conquistatori di altre terre giunsero in Egitto incontrarono poca resistenza; coloro che non avevano nulla da perdere non avevano nulla per cui combattere, cosicché persino i monarchi dovettero elemosinare gli invasori per ottenere incarichi amministrativi. E molta polvere cadde sulla civiltà del Faraone.

Quattromila anni dopo, secolo più secolo meno, esisteva una terra chiamata America. Era governata da un presidente, una carica ottenuta attraverso un complesso sistema di partiti e voti. All’epoca in esame la presidenza era occupata da una persona chiamata Harry Truman, di cui non si sapeva molto se non che anche lui aveva un sogno: agricoltori che dovevano arricchirsi senza lavorare, lavoratori urbani che dovevano nutrirsi bene senza pagare.

In verità, il sogno era indotto da un’intensa preoccupazione politica. Essendo stato spinto alla preminenza dal Partito Democratico, una setta particolarmente frammentata, aveva il dovere di rafforzare e perpetuare la sua presa sul fondo fiscale della nazione. Ora, come è stato notato, il governo di questa terra dipendeva dai voti. Erano un popolo strano, questi americani, in quanto amavano condire la loro grossolana praticità con l’ambrosia dell’idealismo. Tuttavia, resta il fatto che votavano in base alla loro soddisfazione gastronomica o al loro disordine, a seconda dei casi.

Ebbene, il suddetto sogno turbò molto il governante degli americani. Ne parlava spesso e a voce alta, soprattutto quando chiedeva un altro mandato. Alla fine si rivolse anche al segretario all’Agricoltura, un certo Charles Brannan, affinché decifrasse per lui questa fantasia della manna dal cielo.

Questo dignitario, si legge, rispose: “È un gioco da ragazzi, capo”:

È un gioco da ragazzi, capo, potrei risolvere l’indovinello sul posto, ma preferisco prendermi un giorno o due per mettere a punto la risposta nel protocollo, per il bene dell’apparenza, e per dare un tocco di erudizione chiamerò un paio di ragazzi che si sono laureati in economia. Bisogna fare le cose per bene, insomma.

Poco dopo il segretario consegnò al presidente un documento, che a quei tempi si chiamava disegno di legge, che incarnava non solo la soluzione del suo enigma subconscio, ma anche un piano per mettere in pratica le sue affermazioni. Il sogno significava, disse il segretario, che bisognava conquistare i contadini al sacro Partito Democratico assicurando loro prezzi elevati per i loro prodotti, e i proletari delle città fornendo loro prodotti alimentari a basso costo.

Si può fare. Ci serve solo un piano. Ce l’ho qui, sotto forma di disegno di legge, e se riuscite a far sì che quel Congresso inoperoso lo approvi, potete lasciare il resto a me!

Il Presidente fu soddisfatto.

La prima cosa richiesta dal piano era uno stanziamento per un’agenzia di controllo, che di per sé avrebbe garantito una vita facile a un buon numero di fedeli democratici. Questo andava bene. Poi, sarebbe stato presentato agli agricoltori un programma di produzione; in pratica, sarebbe stato detto loro quando, come e quanto avrebbero dovuto produrre. Gli agricoltori che avessero prodotto più di quanto loro assegnato sarebbero stati multati; quelli che avessero rispettato le regole sarebbero stati ricompensati con sussidi. Questo controllo sulla produzione avrebbe permesso ai burocrati di fissare i prezzi, indipendentemente dai costi e dalla domanda. Gli abitanti delle città, soprattutto nei mesi che precedono le elezioni, otterrebbero le loro fragole e la loro panna a un prezzo praticamente nullo, per cui sarebbero grati ai loro benefattori, mentre i sussidi ai contadini che non producono li vincolerebbero allo stesso modo al partito.

“Naturalmente, ci dovranno essere delle tasse”, ha continuato il segretario, “perché altrimenti come potrebbe funzionare il sistema?”.

Ma, come lei sa, capo, gli elettori non associano mai le mance alle tasse. Ai contadini e agli artigiani, se accennano alla questione, viene detto che i “ricchi” pagano tutte le tasse, e questo li soddisfa. Gli assegni che inviamo agli agricoltori compenseranno più che bene il malumore causato dai prelievi sui loro redditi, e la gioia delle casalinghe per il basso prezzo dei cavoli supererà il dispiacere delle detrazioni sui salari.

All’inizio il piano Brannan incontrò scarso favore tra gli agricoltori americani, che, pur dovendo sopportare una media di meno di due automobili per famiglia, erano piuttosto soddisfatti delle elargizioni “paritarie” e diffidavano di qualsiasi cambiamento di status.

Pochi anni dopo, però, la depressione si abbatté sul Paese e in breve tempo si scatenò una folle richiesta di produzione controllata e di prezzi fissati dall’esigenza politica. Il sogno di Truman, come quello di Faraone, si realizzò attraverso un piano.

Va da sé che l’esito finale del Piano Brannan non fu diverso da quello di Giuseppe. Una volta che i supervisori del Dipartimento dell’Agricoltura ebbero il controllo dei contadini e delle terre d’America, non ci fu modo di tornare al regime di proprietà privata; non c’era alcuna inclinazione a farlo, perché i contadini erano ben contenti di scambiare i rischi del loro mestiere con la sussistenza elargita loro dai burocrati. Gli abitanti delle città, allo stesso modo, riuscivano a vivere e ad avere figli in un regime di reddito fisso e prezzi regolamentati. Nessuno desiderava di più (tranne alcuni recalcitranti che presto si resero conto dell’errore commesso) e nessuno si preoccupava di cambiare. In realtà, con le aspirazioni limitate, a nessuno importava nulla….

.…… e la civiltà americana fece la fine di quella egizia.

Frank Chodorov

Fonte: mises.org

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