L’Italia del Rugby ed il Cucchiaio di Legno. Stavolta è giusto così
La nazionale di rugby ha perso tutte le partite contro Irlanda, Scozia, Inghilterra, Francia e Galles e si porta a casa il per nulla ambito trofeo del Cucchiaio di Legno, regalato a chi esce sconfitto da tutti i confronti del torneo. La situazione italiana è ancor più grave se si pensa che la striscia di debacle consecutive è arrivata a quota 22. Ho giocato a rugby circa 6 anni come pilone sinistro in mischia. Ero in una squadra in serie B, con numerosi talenti al suo interno, ma io non sempre ero titolare. Mi allenavo pochino perchè facevo l’Università molto lontano dal campo da gioco, e quindi garantivo solo l’allenamento del venerdi sera. Soddisfazioni (al mio esordio in B stracciammo il Padova in casa loro), e delusioni (una retrocessione in C1 a vantaggio del Perugia per differenza punti) si sono alternate in egual misura in quegli anni giovanili, dei quali vado comunque molto fiero. Poi ho seguito il rugby locale come giornalista nella seconda metà degli anni Novanta. Direi però che le competenze tecniche per valutare le incessanti sconfitte dell’ItalRugby al trofeo Sei Nazioni non le ho proprio. Per conoscerle bisognerebbe chiedere a soggetti che se ne occupano professionamente, come il mio ex compagno di squadra e commentatore per Eurosport e Sbs Luca Tramontin. Io mi limito alle motivazioni psicologiche e “politiche” , che però non sono affatto meno rilevanti di quelle tecniche.

Chi mi segue, di solito, apprezza l’analisi non convenzionale dei miei scritti, specialmente quando si riferiscono all’identità italiana e alla grandezza che attribuisco al paese in cui vivo e sono nato. In altre parole, sono un forte estimatore dell’Italia e degli italiani, e difendo i caratteri nazionali contro una letteratura mainstream ridicolmente bugiarda ed esterofila. Questo però non significa avere il prosciutto sugli occhi e non vedere i gravi difetti di noi italiani. E sono proprio alcuni deficit di mentalità ad essere la causa delle sconfitte al Sei Nazioni.
Secondo l’ex Capitano della nazionale Sergio Parisse è una questione di mancanza di esperienza internazionale: le squadre italiane di club sono gestite male, il livello nazionale è molto basso e i giocatori non hanno praticamente mai la possibilità di misurarsi con avversari forti come quelli che incontrano al Sei Nazioni. Parisse nel 2016, dopo l’ennesimo Sei Nazioni disastroso disse:
Alcuni ragazzi hanno imparato più un mese nel Sei Nazioni che due anni col club.
Quest’analisi è tecnica, ma fortemente limitata. Quando scrivevo per il giornale locale di rugby mi toccava aspettare i giocatori fuori dagli spogliatoi. Sapete cosa riferivano SEMPRE i perdenti?
“è mancata la volontà, non abbiamo avuto abbastanza cuore“
Sapete cosa dicevano invece i giocatori dei club usciti vincitori dalla partita?
“abbiamo vinto perchè abbiamo avuto cuore“
Io annotavo tutto sul taccuino del bravo giornalista, ma dentro di me pensavo:

CUORE UN PAIO DI PALLE!
Con questa scusa scatta lo stesso meccanismo che chiamo sindrome di Garibaldi e che ci ha visti soccombere ad Adua e Caporetto. “Le spallate”, “sempre avanti” ed altre cazzate simili. La squadra che vince una partita di rugby ha più fiato dell’altra, i tre quarti corrono tutti sotto i 12 secondi i 100 metri, i piloni fanno lo squat con almeno 250 kg e panca piana sui 200 kg. Le seconde linee sono in grado di schacciare a canestro e superano i due metri d’altezza. Un pilone nel 1987 pesava mediamente 108 kg e nel 2015 ben 124. Il nostro celebratissimo Martin Castrogiovanni ne pesa 117. Un pilone “medio” corre i 40 metri in 5,65 secondi, l’ala in 5,20…
Il resto è solo conversazione.
Cosa intendo dire con questo? Che i rugbysti italiani soffrono dello stesso problema che soffrono gli atleti italiani in quasi tutti gli sport di squadra: pensano che il risultato sia frutto di coraggio ed emozioni, mentre, in verità, l’80 per cento del risultato è dato dalla preparazione. Le altre squadre si vede lontano un miglio che godono di una preparazione scientifica, che non perdono palloni perchè sono abituati a giocare TANTO assieme, che si conoscono e sono uniti. Quello che si sente sempre dire: motivazioni, coraggio, cuore, vale moltissimo in condizioni di parità, e fanno la differenza. Ma prima occorre guadagnarsela la parità!
Come mai, ad esempio, gli atleti italiani sono molto forti negli sport individuali? Perchè in quel caso c’è un’attitudine all’individualismo e una tradizione legata ai preparatori atletici del Coni, alle scuole sportive; e le motivazioni fanno davvero la differenza. Gli italiani sono grandissimi schermitori, nuotatori, pugili, conoisti, judoka. Ovviamente rapportando il tutto al numero degli abitanti e degli iscritti. Certo, direte, sono anche ottimi calciatori e pallavolisti, ma lì non vale perchè entrano in gioco fattori legati alla presenza delle strutture sul territorio, gli sponsor ed il sistema d’istruzione.
E’ da sport come il rugby, invece, che si vede una mentalità unita e nazionale. Molti giocatori italiani di rugby sono in realtà oriundi argentini. Vale anche per il Galles, vincitore del torneo 2019?
Occorre invece una mentalità che sappia unire la professionalità tecnica con lo spirito di bandiera. E noi italiani su questo abbiamo un lavoro ancora lungo da fare, purtroppo.

Non mi resta allora concordare, seppure a malincuore, con le dure parole dello psichiatra Vittorino Andreoli pochi anni or sono, che all’HuffingtonPost rilasciava questa intervista:
“Un sintomo tipico della malattia degli italiani è l’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.
Cattivo.
“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.
Altro sintomo della malattia mentale degli italiani?
“La recita”.
La recita?
“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?
Che fanno gli inglesi?
“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale”.
Massimo Bordin
Fonte: http://micidial.it