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Chi più della Natura ha Immortalato Re Ferdinando IV di Borbone e la Regina Maria Carolina d’Asburgo?

Quello che avrete modo di leggere è un testo esoterico ma sembra un romanzo il quale ti fa dimenticare il senso ed il significato di ogni simbologia occulta facente parte della storia passata, presente e futura.

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Re Ferdinando IV di Borbone e la Regina Maria Carolina d’Asburgo

Il Bosco di San Silvestro di Caserta conserva la loro memoria indelebile che nessuno può cancellare, solo un terremoto.

Tre storie prese dal web

Ferdinando IV Re Lazzarone parlava solo il napoletano Figlio terzogenito del re di Napoli e Sicilia Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia; fu re di Napoli dal 1759 al 1799, dal 1799 al 1806 e dal 1815 al 1816 con il nome di Ferdinando IV di Napoli, nonché re di Sicilia dal 1759 al 1816 con il nome di Ferdinando III di Sicilia. Dopo questa data, e con l’unificazione delle due monarchie nel Regno delle Due Sicilie, fu sovrano di tale regno dal 1816 al 1825 con il nome di Ferdinando I delle Due Sicilie.

Questo sovrano (che fu amatissimo dal popolo ed ingiustamente poi vilipeso dalla prezzolata storiografia post unitaria) si ebbe proprio dall’amato popolo il soprannome affettuoso di Re Lazzarone; il popolo infatti amò subito fin dal primo giorno del suo regno quel giovane re, e comprese che il sovrano non era uno stupido, quantunque non gradisse impegni seri, odiasse lo studio e si rifiutasse sempre, categoricamente, di imparare le lingue, compresa la lingua italiana. Infatti Ferdinando I parlava solo napoletano ed aveva abitudini che gli assicurarono l’affetto incondizionato del popolino, che lo spalleggiò per l’intero suo lunghissimo regno.

L’atteggiamento di questo sovrano nei riguardi dei sudditi supera di gran lunga la maniera di regnare delle monarchie nord europee, oggi tanto apprezzata e lodata: egli bighellonava, senza timori, per le strade in compagnia di scugnizzi, cacciava e pescava con grande bravura e provvedeva a rivendere selvaggina e pesce al mercato in concorrenza con i titolari delle bancarelle;altro suo svago prediletto fu quello della cucina dove si divertiva a veder preparare o a preparare da sé cibi gustosi seppur semplici il tutto in linea con il suo carattere semplice e bonario. Tutte queste abitudini gli valsero l’affettuoso appellativo di Re lazzarone.

Ferdinando IV Re burlone

Di carattere estroverso oltre che re lazzarone , Ferdinando era chiamato pure re burlone, per le burle con cui amava prendersi gioco di cortigiani e popolani o quello simpaticamente dissacrante di Re nasone (in riferimento al suo naso di notevoli proporzioni). Tutti i popolani gli volevano bene perché lo sentivano uno dei loro in tutto e per tutto: nella spensieratezza, nella furbizia comportamentale.

Odiava la vita di corte e, per sottrarsi ai suoi rituali, che lo annoiavano profondamente, era sempre a caccia fra Caserta e Portici, amava il cibo semplice e genuino, dormiva spesso nei fienili e preferiva formose e compiacenti popolane e contadine alle sofisticate e disponibili dame che frequentavano il palazzo reale; spesso si rifugiava in cucina e spessissimo frequentava (travestito da guappo o zerbinotto) infime bettole e taverne dove giocava a carte (talvolta barando) con popolani ivi incontrati.

L’elegante Maria Carolina e il “cafone” Re Nasone che mangiava con le mani

Maria Carolina d’Asburgo, figlia di Maria Teresa d’Asburgo, andò in sposa a Ferdinando IV di Borbone, il “Re Nasone”, a sedici anni. Per l’aristocratica ragazza, cresciuta negli agi e nel lusso della corte austriaca, partire per sposare, su commissione, il re di Napoli fu un trauma enorme: Ferdinando, con tutta la sua corte, era un sovrano “sui generis”, rustico e ben lontano dal concetto di nobiltà che circolava in tutta Europa. Non a caso la prima impressione di Carolina sul marito, scritta dalla stessa in una lettera alla sua ex governante di Vienna, fu: “Mio marito è ripugnante“.

Un preludio che riassume l’intero rapporto dei due regnanti. Come poteva essere altrimenti? Ferdinando, cresciuto fra gli scugnizzi napoletani, a stento capiva l’italiano forbito di Carolina, figuriamoci come potesse venire incontro ai suoi gusti raffinati. La regina cercò di far appassionare il re alle opere in scena al teatro San Carlo, ma, di pronta risposta, lui, annoiato, ordinava piatti di spaghetti e iniziava a mangiarli con le mani scatenando applausi e risate del pubblico.

Addirittura, una sera che Carolina decise di intrattenere gli ospiti cantando al clavicembalo, Ferdinando pregò gli uomini di fargli compagnia mentre era seduto sul vaso ed intrattenne con loro una lunga conversazione mentre svolgeva i suoi bisogni. Eppure, nonostante la diversità, i rapporti intimi fra i due erano più che intensi: la regina rimase incinta diciotto volte.

Non che Carolina apprezzasse la maternità, anzi, odiava gli impedimenti fisici che quello stato le procurava e con disinvoltura affibbiava i figli a serve e nutrici una volta partoriti. Vero anche che solo pochi bambini sopravvissero al parto e alla prima infanzia, cosa che traumatizzò profondamente la donna. In una lettera al padre Carlo, Ferdinando, mostrò tutto il suo sconcerto per la reazione violenta della moglie alla scoperta di essere nuovamente incinta dopo soli tre mesi dall’ultimo parto: “Diventò una furia, mi saltò come un cane sopra e mi prese anche una mano in bocca per cui ne porto ancora i segni…a tavola fece ancora peggio, chiamando tutte le cameriere che sono zitelle, le quali altro non potevano vedere che lei gridava come un’aquila con termini anche niente decenti e io col capo calato stavo sentendo quei complimenti senza nemmeno aprire bocca”.

Maria Carolina fu anche una figura politica rilevante per il Regno. Questo grazie all’avveduta Maria Teresa che, prima di inviare la figlia alla corte di Napoli, fece stilare un patto matrimoniale in cui si disponeva che nel momento in cui Carolina avesse dato alla luce un erede maschio, avrebbe potuto prendere parte ad ogni riunione politica. Il bambino nacque e la regina si trovò in mano le chiavi del Regno.

Il potere della donna e l’influenza sulla corte erano talmente grandi da far licenziare in tronco il primo ministro, eminenza grigia di Ferdinando, Tanucci solo perché  astioso nei suoi confronti. Carolina non conosceva mezze misure: passava dall’amore all’odio, capricciosa e lunatica con i membri della corte, vendicativa e fredda con i suoi nemici…o semplicemente con chi non le stava a genio.

Era anche dissoluta ed incline al tradimento quasi quanto il marito e molti suoi amanti ottennero cariche pubbliche di grande spessore, come il comandante irlandese della marina toscana John Acton, messo a capo della flotta del Regno di Napoli. Nonostante molti cercassero di aprire gli occhi al marito sui tradimenti della moglie, Ferdinando reagiva borbottando o, al massimo, minacciando Carolina di farla accoltellare o di strangolarla lui stesso. Vuote minacce: il re, nonostante tutto, amava la sua regina e, inoltre, gli faceva comodo che la donna si occupasse del regno in sua vece.

Lo scoppio della rivoluzione francese segnò il decadimento psichico di Carolina, soprattutto dopo che la sorella Maria Antonietta, regina di Francia, fu ghigliottinata. La donna divenne paranoica e sospettosa di tutti i sudditi e fece reprimere nel sangue numerose sommosse e semplici contestazioni. Autoritaria e dura temeva un focolaio di rivoluzione che potesse portare a una tragica conclusione del suo regno. Nemmeno il pugno di ferro della regina, però, poteva impedire il flusso di eventi che condizionò l’inizio dell’ 800: Napoleone arrivò in Italia liberando la penisola da tutte le vecchie dinastie. Carolina fuggì in esilio a Vienna e li morì pochi anni dopo senza nemmeno vedere la sconfitta dell’Imperatore francese e la Restaurazione che avrebbe portato i Borbone a regnare di nuovo su Napoli.

Il bosco di San Silvestro

(Illustrazione 2) Mappa del Bosco di San Silvestro

Nelle adiacenze della reggia di Caserta, in continuità con il parco vanvitelliano, troviamo il Bosco di San Silvestro, dove la natura si riappropria arditamente di spazio e tempo, dove il ricordo di tagli e lontane battute di caccia creano un’atmosfera a tratti antica e melanconica. Il bosco si estende all’interno della città di Caserta e comprende le due colline di Monte Aiuolo e Montebianco. Un tempo parte integrante della reggia, in qualità di “reale delizia” l’oasi ospitò, all’inizio del 1800, i giochi e le battute di caccia di Ferdinando IV.

Oggi, con la sua irruenza verde, rappresenta un raro esempio di formazione boschiva mediterranea collinare costituendo un polmone verde e selvaggio. Come bene naturale, storico e artistico il comprensorio è sotto la tutela della Sovrintendenza alle Belle Arti. Le visite si snocciolano tra il giardino delle felci (tra i primi in Europa), dove si impara a riconoscere la cappella venere dalla lingua di cervo, percorsi natura, il giardino per farfalle (uno dei più grandi in Europa), ma non mancano un’area faunistica dedicata al daino e un’appassionante arnia didattica.

Il bosco è costituito in gran parte dal tenace leccio a cui si associano le roverelle, i cerri, gli ornielli e, nelle zone più umide, i castagni. In alcuni tratti il bosco di lecci si dirada e lascia il posto ad olivi e alla tipica macchia mediterranea con mirto, lentisco, cisto, corbezzolo e viburno.

Sono mille gli uccelli che rallegrano l’oasi dei loro canti e richiami: tortore, fiorrancini, cince, usignoli, zigoli, cardellini, ghiandaie, mentre, tra i rapaci, è possibile riconoscere all’imbrunire la civetta, il barbagianni e l’allocco. Nell’oasi è inoltre attivo un centro per il recupero della fauna selvatica che ogni anno accoglie, cura e reintroduce in natura decine di uccelli, sopravvissuti per miracolo ai pallini dei cacciatori. Ghiri, moscardini, volpi, ricci e tassi riempiono il sottobosco di tracce, passi furtivi, di guizzi, di rumori e scricchiolii che completano il fascino della visita nell’oasi. Il turista che provenga dal bosco non può non visitare la splendida reggia di Caserta con il suo meraviglioso giardino.

La memoria di Re Nasone nel Bosco di San Silvestro, una visione profetica rimandata al futuro

(Illustrazione 3) La memoria di Re Nasone in sembianze porcine, altri suoi amori e la Regina Carolina “con la mano sulla bocca”, nella mappa del Bosco di San Silvestro.

Secondo una concezione che si rifà ad antiche cosmogonie, l’individuo, o meglio,  ciascun essere vivente, fa parte di un unico corpo senziente, gigantesco rispetto alle dimensioni umane, ma in effetti piccolissimo se considerato in termini astronomici. Questo corpo senziente è la Terra, o Tellus, dal nome della dea romana della Terra.

Gli esseri umani rivestono una funzione molto importante all’interno di Tellus, poiché ne sono le cellule più evolute, quelle del cervello.

Ragionando secondo questa ottica, e una volta preso coscienza di questo, si comprenderà come l’ordinaria vita di ogni giorno altro non sia che sogno (maya) e ci si accorgerà che ogni cosa, anche la più insignificante costruita dall’uomo che pensavamo essere priva di vita, in effetti non è tale. Si imparerà così a vedere che le costruzioni umane, i fabbricati, le strade, e le grandi vie di comunicazione sono forze che nascono, crescono e muoiono. Si vedrà che le città e gli agglomerati urbani sono foreste e intricati «disegni» della madre terra, ciascuno vibrante di una propria particolare forma di vita.

Ed ecco che la piantina topografica del bosco di San Silvestro dell’illustr. 3, rivela il segreto in essa celato in tanti modi, significatoti di una memoria legata a fatti in essi avvenuti che non potevano che riferirsi a chi volle che il bosco sorgesse per rendere gioiosa la vita spensierata di Ferdinando I Re delle due Sicilie. Ma la natura è bizzarra e crudele, però dice la verità mettendo in rilievo la natura del re per ciò che era nel suo comportamento consueto di corte, immortalato dal suo vivere da zotico e mangiare con le mani, un re nasone in sembianze porcine. Il particolare del parco dei daini e delle farfalle a forma dell’orecchio di un porco).

Accanto a lui, curiosamente abbracciata un’elegante e bella donna che forse ne racchiude due, la prima la regina Carolina “con la mano sulla bocca per il disgusto del marito”: si nota un monile a forma di serpentello sul braccio, il segno alchemico di un contrasto in potenza col suo re e sposo, un “leone rosso” difficile da scalfire perché troppo dominava in lui lo “scugnizzo” napoletano. La seconda moglie, che il re sposò dopo la sua morte, è Lucia Migliaccio, la duchessa di Florida, che il re amava veramente a differenza della prima moglie per la quale ci fu odio e amore, un vero e proprio “coniunctio oppositorum” o il “coito”, che riferiscono all’unione alchemica dello spirito con la terra.

Gli opposti devono prima lottare divorarsi ed uccidersi a vicenda perché la loro unione possa realizzarsi. Questa operazione ha due aspetti, quello del costringere la terra corporea e pesante ad elevarsi verso le regioni dello Spirito e quello consistente nell’obbligare lo Spirito ad abbandonare i “cieli filosofici”, ove può spaziare liberamente, costringendolo a discendere nelle regioni più pesanti e condizionate dai vincoli terrestri perché possa vivificare rivitalizzare e “rendere consapevole” il corpo.

Nella pratica delle vicende storiche è l’unione delle due casate, dei Borboni e degli Asburgo nella coppia regale, Ferdinando e Maria Caterina. Non mancano le prime due mogli promesse mai conosciute appena al lato opposto, o forse anche gli amori villani di re Ferdinado I (o IV) con contadinotte e cameriere che preferiva al posto delle aristocratiche di corte. Nel frattempo curiosi esperimenti di “coniunctio oppositorum” si tentano nei reali d’Europa in modo occulto, quello del re Luigi XVI dei francesi con la sorella di Maria Caterina, Maria Antonietta degli Asburgo, finiti ghigliottinati dalla sorgente Francia della rivoluzione che poi porterà al trono imperiale Napoleone Bonaparte.

Ed ecco la differenza sostanziale con la semplicità, e quasi “innocenza”, del re nasone, burlone e lazzarone e financo di fattezze interiori “porcine”. Quasi a preludere la profezia di Giovanni nella sua Apocalisse con la vittoria finale dell’Agnello sulla bestia (un imperatore) a spese dei dieci re.

A immortale l’argomentato complesso idillio alchemico intorno al re Ferdinando, si aggiunge alle due mani regali, una mano estranea in un patto di alleanza, la Natura, con la cascata, il giardino inglese, il bagno di Diana e il povero Atteone. Come a sancire che nessun ostacolo potesse venire dalla irascibile Diana in particolare.

La natura gioviale e semplice dello “scugnizzo” napoletano Re Ferdinando era vincente, era l’ideale, un caso singolare nella vasta radura europea delle monarchie. Nacque, per opera di re Ferdinando IV (o I), persino una pianta rara in anticipo nel tempo, il socialismo nella piccola “repubblica” della fabbrica di seta a San Leucio.

E tutto questo giusto a “San Silvestro“, l’ultimo giorno dell’anno, come se fosse il segno di una profezia di un “nuovo vestito vivente” alla fine dei tempi per l’uomo del futuro, fatto dai bachi dell’industria della seta, e non ricavato da sintesi per opera della bestia (apocalittica). Il “corpo della resurrezione” promesso dal Cristo! A sinistra un significativo segno, la “vigna del ventaglio” che quasi si vincola con la mano del trio della cascata e del giardino inglese. Allusivo, per altro, dell’appoggio della monarchia inglese. Se ne parlerà fra poco.

La vigna del ventaglio immagine simbolica dell’upupa

La tenuta di San Silvestro era coltivata soprattutto ad olivi e vigne, tra cui spicca la famosa “Vigna del Ventaglio” ed erano presenti anche frutteti e giardini pensili. Nella piantina mappale dell’illustr. 2 la notiamo sul lato sinistro.

Il Re Ferdinando, era un grande appassionato di vini e per questo volle questa coltivazione, la fece disegnare al grande Luigi Vanvitelli che sfruttò al meglio la morfologia del terreno formando un ventaglio formato da nove raggi, quindi 10 settori, che partivano da un percorso d’accesso con un magnifico roseto.

Illustrazione 4: L’upupa

Già allora la rosa era considerata una “pianta spia” perché manifesta prima della vite l’attacco di parassiti, malattie e addirittura carenze di minerali. Il re volle dare vita ad un vitigno tipico del Regno delle due Sicilie, seguendone direttamente la coltivazione delle uve e poi la produzione del vino, per definire le regole di tecniche colturali da diffondere e far conoscere poi in tutto il Regno.

Il ripristino della Vigna è importante, data la sua struttura unica “a ventaglio”, che permetteva la coltivazione di dieci diverse uve, tra cui l’autoctono Pallagrello, bianco e nero, scomparso ai primi del Novecento e recentemente recuperato. Così descrive il cavalier Sancio nel 18265 la vigna a ventaglio:

«La natura, l’indole, e la posizione declive del terreno rendevano questo sito opportunismo per una vigna. Fu essa stabilita presso a cinquanta anni indietro sulle diverse proprietà, che si acquistarono dalla famiglia Panaro, come abbiamo enunciato nel foglio 43 della presente platea.

la disposizione di questa vigna è singolare, come scorgersi dalla Tav. … messa nel volume delle piante. Forma essa un semicerchio, diviso in 10 raggi, ed è tanto somigliante ad un ventaglio, che ne ha preso e ritenuto il nome.

Ciascun raggio, che parte dal centro, ov’è il piccolo cancello d’ingresso, contiene viti di uve di diversa specie, contrassegnate con lapidi di travertino.

La lapide, messa nel primo raggio a mano dritta dell’ingresso, indica le uve dette Lipari Rosso. Quella nel secondo raggio indica il Delfino Bianco. Quella nel terzo raggio indica il Procopio. Quella nel quarto raggio il Piedimonte Rosso. Quella nel quinto raggio indica il Piedimonte Bianco. Quella nel sesto raggio indica il Lipari Bianco. Quella nel settimo raggio indica Siracusa Bianco. Quella nell’ottavo raggio indica Terranova Rosso. Quella nel nono raggio indica Corigliano Rosso. Quella nel decimo raggio indica Siracusa Rosso.».

Il vino è una bevanda. E non soltanto bevanda che spegne la sete: questa è soprattutto l’acqua. Il vino è qualcosa di più: non solo placa l’arsura ma è anche la bevanda della gioia, della vita, della festa.

Nell’Antico testamento il vino era considerato il simbolo di tutti i doni provenienti da Dio; era la bevanda della vita che sa donare consolazione e gioia e curare la sofferenza dell’uomo. Per questo motivo nei banchetti non poteva mai mancare il calice del vino, sul quale si pronunciava poi una preghiera di ringraziamento.

Per indicare la gioia della vita futura, la Bibbia dice che nel banchetto finale il Signore offrirà agli ospiti vini raffinati: durante le Nozze di Cana, l’acqua diventa ottimo vino segno della gioia che il regno di Dio porta con sé.

Ed ecco con la “Vigna del ventaglio” una simbolica rosa, a raffigurare un’assemblea di sudditi della gioia del regno di re Ferdinando nei dieci raggi da contrapporre ai biblici dieci comandamenti.

Ma se in effetti questo traspare visibilmente attraverso la “Vigna del ventaglio”, su l’altro piano del simbolo secondo l’illustr. 3,  quasi a voler porre in risaldo col nomignolo che il re aveva naso, cioè anche fiuto per ben altre cose fondamentali del buon vivere nell’innocenza e nella gioia quotidiana, lo stesso “ventaglio” sembra rappresentare un magnifico uccello che arricchisce la prosperosa fauna del Bosco di san Silvestro, la meravigliosa Upupa quasi a ricordare il mitico uccello degli ermetisti, l’araba Fenice dell’immortalità.

Maria Carolina d’Asburgo

In quanto ai dieci vini del ventaglio non si deve tanto gioire, perché corrispondono ai dieci re dell’Apocalisse di Giovanni. Per essi, nella brama tipicamente umana di superare i limiti assegnatici dalla natura, il desiderio più ardito e superbo è da sempre quello di sconfiggere la morte. Lungo i secoli e a tutte le latitudini la ricerca dell’elisir, della pietra, dell’incantesimo o del luogo che potesse rendere immortali ha accompagnato la storia dell’uomo, l’animale che non si accontenta mai.

Ma il roseto “spia” all’imbocco della vigna sta a indicare il lato penoso alchemico con le sue spine. Ecco anche il segreto della sua funzione pratica di salvare in anticipo eventuali danni parassitari alla vigna.

Una cresta da regina, un volo sinuoso che ricorda quello delle farfalle e un piumaggio appariscente, da ricordare l’araba fenice

In marzo non sono solo le rondini a ricordarci l’arrivo della primavera, questa stagione segna infatti anche il ritorno dell’upupa (Upupa epops). Il suo piumaggio è davvero inconfondibile: marrone molto chiaro nella parte superiore e a strisce orizzontali bianco-nere nella parte inferiore. Il becco è piuttosto lungo e sottile e leggermente ricurvo verso il basso. Ma l’aspetto che più caratterizza la silhouette dell’upupa è la sua cresta, un ciuffo erettile di penne con la punta nera che può alzare a piacimento durante la danza nuziale o per spaventare i predatori.

L’upupa ama i luoghi secchi, semi-alberati, caldi e assolati e per questo la si può incontrare in frutteti, prati e vigneti o lungo strade sterrate tipiche delle nostre campagne, dove può fare i bagni di polvere e trovare il suo cibo preferito: larve di invertebrati, grossi insetti, molluschi e ragni. Non è difficile avvistarla anche nelle zone verdi di città.

Sia il nome latino che il nome scientifico dell’upupa derivano dal suo canto. Nel periodo riproduttivo infatti i maschi emettono il tipico verso “hup-hup-hup” di tre sillabe.

Il volo dell’upupa è davvero particolare, un andamento a sinusoide con brevi e regolari battiti di ali, simili al volo di una farfalla. Le ali tozze permettono all’upupa di scattare rapidamente in diverse direzioni anche ripetutamente durante il volo, in modo da seminare facilmente gli inseguitori.

Un altro comportamento tipico dell’upupa è un particolare “inchino”. Quando si sente minacciata si schiaccia al suolo aprendo le ali, la coda e al contempo alzando la testa verso l’alto. In questo modo rende difficile ai predatori, dall’alto, di identificarla e quindi cacciarla.

Questa tecnica serve anche all’upupa come strategia per scaldarsi, estendendo la porzione di corpo bagnata dai raggi del sole.

Sono numerose le rappresentazioni di upupe in templi, pergamene e affreschi. Presso le civiltà mediorientali e nell’Antico Egitto l’upupa era considerata un animale sacro e per questo era vietato ucciderla. Secondo il Corano è l’upupa a far incontrare la Regina di Saba e il Re Salomone, diventando così messaggero d’amore di una delle storie più affascinanti di tutti i tempi.

Illustrazione 5: Geo-cartografia di Caserta. Un ragazzo veggente e il suo maestro. Sotto: la coppa capovolta di una Nuova Sapienza nella stiva di un vascello a vele spiegate che procede verso ponente.

E l’upupa del bosco di san Silvestro non può che rappresentare il sacerdote della natura che benedice l’unione di re Ferdinando I delle due Sicilie con l’austriaca regina Carolina d’Asburgo, ma con la seconda moglie è un’altra storia, poiché il regno delle due Sicilie era in declino. Resta però il mistero sull’erede spirituale del semplice re scugnizzo napoletano Ferdinando IV o I, spogliato dal suo manto “porcino” nella fase alchemica che corrisponde all’appeso dei tarocchi. È il momento cruciale dell’alchimia in cui tutto il suo oro spirituale, i due Sali, derivante dalla corona regale di monarca delle due Sicilie, si riversa per tradursi insieme alla sua “cenere” di defunto, il terzo Sale, nella Pietra filosofale, l’Elisir di lunga vita.

Ed ecco il senso della “perla” nella Torre dei Falchi di Casertavecchia che il pulcino ha ingoiato.

Resta da trarre insegnamento dal fatto che la Torre è all’insegna dei Falchi come nome.

Condivendo il significato simbolico dell’aquila, il falco è associato al sole ed evoca le lotte cosmogoniche delle forze del bene contro le forze del male. Nel cristianesimo assieme alla colomba incarna, lo Spirito Santo nei doni della scienza, dell’intelligenza e della fortezza. Essendo un uccello pulitissimo che si lava ogni giorno per liberarsi dai parassiti, richiama il concetto di purificazione.

Ci si potrebbe giurare che la natura, come ha ben dipinto lo scenario di Casertavecchia, facendo comparire il “pulcino d’oro” della favola della “chioccia”, così potrebbe aver inscenato le circostanze che, per effetto della Pietra filosofale che è anche l’elisir di vita, fa comparire il novello napoletano in Ferdinando IV o I di Borbone redivivo, magari nella mappa di Caserta.  E guarda caso nella mappa di Caserta dell’illustr. 5, vista fra le pieghe della terra, sorge d’incanto una rappresentazione in cui compare un fanciullo preso per la magia, con una bacchetta fra le mani a leggere il futuro.

E c’è di più perchè è seduto su uno scanno e i suoi piedi sono quelli della reggia di Caserta, la stessa di Ferdinando IV o I di Borbone quando era re insieme alla sua Maria Carolina d’Asburgo. Sullo sfondo si vede un vascello a vele spiegate sull’alto pennone portabandiera si intravede appena la cascata e il bagno di Diana. La bandiera del vascello ritrae il mistero che ogni alchimista deve affrontare e che i falchi della Torre di Casertavecchia indicano.

Gaetano Barbella

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