Dentro la Realtà: Decadenza, Caos Sistemico, Europa
L’italia tra il 2000 e il 2017 fa crescere il PIL del +2,6% contro il +25,9% dell’Europa (senza Italia): siamo di fronte a scelte politiche prolungate e bipartisan, non ad errori. Il contesto generale.
«Ma mentre sulla scena politica si seguono queste banali
rappresentazioni, nelle quali tutte le ambizioni umane intessono la
loro menzogna, sullo sfondo giganteggia la maschera sghignazzante della
realtà. Ardono per le vie, nelle case, nell’intimità tutte le passioni
di cui si sente capace l’anima umana. L’individualismo ha preso il
sopravvento sull’armonia delle collettività operanti ad un fine. La vita
collettiva si è spezzata in tante singole tragedie. Delitti che
abbassano e riconducono l’uomo allo stato selvaggio; violenze truccate
di legalità che rivelano, sotto la mano inguantata dell’uomo colto e
aristocratico, il callo e l’artiglio del negriero; torture morali e
materiali che strappano gli ultimi veli alle ipocrisie del diritto;
arbitrii che spezzano i rapporti sociali ma non osano mettere a parte i
ciarpami delle tradizioni e lanciare la grande definitiva parola di
sfida»
(A. Gramsci: Fuori della realtà. L’Ordine Nuovo, 17 giugno 1921)
Quanto segue era iniziato come un commento all’interessante articolo di Giuseppe Masala sulla decadenza europea nella ricerca e sviluppo.
Ma poi si sono sovrapposte molte cose, tra le quali l’inasprirsi
della crisi venezuelana, le continue minacce di crisi di governo in
Itala e l’avvicinarsi delle elezioni europee, che mi hanno spinto a
rivedere quel problema specifico da un punto di vista più ampio.
Volevo inizialmente fare un solo appunto a quell’articolo, del quale
condivido lo spirito. L’appunto è questo: io non credo che i “soloni di
Parigi” dell’OCSE non conoscano la situazione del debito pubblico del
Congo (bassissimo, a fronte di una situazione socio-economica tra le
meno invidiabili del pianeta) e del Giappone (altissimo, a fronte di una
situazione socio-economica ultra-privilegiata). E non credo che
“sbaglino” a continuare a insistere come bufali sulla austerity.
La categoria di “errore” si applica al livello logico-concettuale ma
qui siamo in presenza di un livello differente, dominato da categorie
relative al Potere e ai meccanismi di Accumulazione, non alla Logica.
Siamo infatti di fronte a una delle classiche contraddizioni di questa crisi: la rapina di ricchezza per riempire la sacca (o bolla) vuota della finanziarizzazione, questa rapina di ricchezza reale a favore di quella fittizia, porta all’austerità, perché uno dei suoi strumenti è proprio il possesso del debito sovrano dei Paesi subalterni nella gerarchia informale politica internazionale con il conseguente azzannamento della loro giugulare per dissanguarli col servizio del debito. Si ha così l’effetto di bloccare gli investimenti e la produzione di nuova ricchezza (cioè i flussi) e la rapina si sposta sempre più ferocemente sulla ricchezza già accumulata (gli stock) in una sorta di orgia di cannibalismo e autocannibalismo. Così si è vista, ad esempio, la rapina negli USA delle case da parte delle banche dopo la crisi dei subprime. Così si ha l’enorme pressione per la messa all’incanto del dominio pubblico (leggi “privatizzazione di beni e servizi e in definitiva quella che io chiamo “finanziarizzazione dei diritti garantiti dalla Costituzione”). Così si ha la svendita della ricchezza industriale e intellettuale.
- A sua volta la finanziarizzazione non è né il frutto di un complotto né un’opzione economica, bensì l’effetto della crisi sistemica. In grandissima sintesi è una reazione al declino dei profitti in commercio e industria nei Paesi del vecchio centro capitalistico ad egemonia statunitense.
Ma siccome l’accumulazione basata sulla finanziarizzazione procede a
ritmi esponenziali, la carne fresca (reale) non basta per tutti e mai
potrà bastare, e ognuno sa che il risultato finale sarà il patatrac di
quelli che nel casinò finanziario saranno rimasti con in mano il cerino
acceso dei crediti non esigibili (un’enorme quantità: i soli “derivati”
sono pari a circa 15 volte il PIL mondiale, cioè non valgono un tubo). E
soprattutto sarà la rovina della classe media e salariata, cioè, in
buona sostanza, delle società dei centri capitalistici occidentali così
come le abbiamo conosciute finora.
La gran parte degli eventi che ci passano sotto gli occhi – che disegnano sia uno scontro di potere mondiale sia una crisi di civiltà – si spiega col tentativo di rimandare il redde rationem,
anche col tentativo di far fluire nel casinò finanziario i capitali
eccedenti che si accumulano nei nuovi centri capitalistici e mantenere
il controllo dei processi sistemici globali di accumulazione. Questo
tentativo ha come condizione la subordinazione politico-militare del
mondo e in particolar modo delle grandi nazioni eurasiatiche, Russia e
Cina.
In subordine e parallelamente assistiamo ai tentativi delle singole
nazioni e delle varie fazioni delle élite di lasciare il cerino acceso
in mano ad altri e riempire quanto più possibile la propria quota parte
di bolla di ricchezza fittizia con ricchezza reale (e uno dei modi è
l’aumento a dismisura dello sfruttamento).
- I populismi/nazionalismi si spiegano da una parte con questa sofferenza sociale e dall’altra con lo stato di anarchia e di lotta di tutti contro tutti generata dal progressivo sfaldamento dell’egemonia globale statunitense e della sua capacità di coordinamento/assoggettamento.
E la spiegazione vale ovunque nel mondo occidentale: da Trump a Salvini, dalla Brexit ai vari sovranismi.
Chi dice, a volte in buona fede, più spesso perché gli piace aprir bocca, “L’Europa che vorrei è quest’altra e non questa” potrebbe con la stessa efficacia dire “Vorrei la Luna nel pozzo”.
Provate ad andare a Parigi o a Berlino a dire che Europa volete. State
pur certi che loro ne vogliono un’altra, cioè un incancrenimento di
quella che c’è di già.
Non “errore” quindi, ma pervicacia della classe politica europea nel
servire e agevolare le politiche di rapina da parte di una ristretta
élite sostenuta dai settori sociali ad essa collegati, settori
relativamente ampi (il famoso 1% si porta dietro un codazzo più
numeroso) e solitamente concentrati nelle aree centrali e “liberal”
delle grandi città. Politiche di rapina eseguite secondo i gradi di
libertà concessi dalla gerarchia informalmente vigente tra i Paesi o, se
la vediamo da un punto di vista simmetrico, secondo i vincoli dovuti al
grado di subordinazione.
Il “sovranismo sub-imperiale”, come lo chiamo io, di Salvini, è un interprete abbastanza lucido di questo quadro.
Da una parte intercetta la sofferenza di una popolazione sempre più
ostile al cosmopolitismo (a sfondo banco-finanziario) delle élite, ai
suoi organi di propaganda (i media mainstream) e ai suoi
rappresentanti politici e ideologici, tipicamente raccolti a sinistra,
sempre più infastidita dai loro proclami buonisti, i “volemose bene”,
gli “accogliamoli tutti” (ma non a casa mia e nemmeno nel mio quartiere,
ovviamente, ma in qualche periferia o altra zona già degradata o in
qualche “Cara” da dove possono prostituirsi, entrare nel giro della
droga, della malavita, fare accattonaggio e se va bene aspettare qualche
caporale di giornata – benvenuti nel paese di Bengodi!), mentre nel
frattempo la politica banco-finanziaria aggrava sempre di più la
situazione sociale ed economica (anche per quelli “accolti col cuore in
mano”, ovviamente), così che ormai quei proclami sono percepiti come
demenziali e provocatori, assieme, ahimè, ai valori e agli ideali che essi pretendono di incarnare – e questa è una delle parti più tristi e pericolose della faccenda, perché i valori e gli ideali contano nei progetti degli uomini e nella convivenza umana.
Dall’altra parte Salvini cerca – in modo ovviamente subordinato –
l’appoggio di quello che possiamo definire “il sovranista imperiale in
carica”, cioè Donald Trump, per cercare di risalire nella gerarchia
Europea, avere più forza negoziale e ridare un po’ di fiato ai settori
sociali dei quali ha intercettato la sofferenza, la rabbia e la
preoccupazione crescenti e che sono stati completamente abbandonati dalla sinistra la quale, alla Hillary Clinton, li bolla come “deplorables”,
cioè razzisti, xenofobi, omofobi, nazionalisti, sessisti e, che so,
magari anche anti-darwiniani e così si sente meglio e si immagina più
bella, più giusta, più meritevole e, soprattutto, legittimata a non
rappresentarne le istanze (insomma, che l’operaio, specie se maschio e
bianco, se ne vada al diavolo, che è poi quello che pensava ogni buon
capitalista).
- Vale la pena soffermarsi ancora un po’ su questo triste spettacolo sociale e ideologico che sta producendo effetti estremamente preoccupanti, specie per chi, come me, detesta visceralmente il razzismo, anche nelle sue forme velate, che poi sono le più insidiose.
Questi “Cara”, come quello da poco chiuso a Castelnuovo di Porto,
erano stati invariabilmente definiti dalla sinistra come dei lager
putrescenti di cui si chiedeva la chiusura. Arrivato Salvini sono
diventati tutt’a un tratto delle Disneyland, oasi d’integrazione. A
parte l’idea di sottofondo che noi possiamo sradicare, o meglio dis-integrare persone dai loro paesi “sottosviluppati”, “retrogradi” o semplicemente “sfigati”, per poi integrarle nella
nostra superiore civiltà – un’idea che si commenta da sola e fa
sembrare il qualunquista e grossolano “aiutiamoli a casa loro”
salviniano una raffinatezza politica e morale – a parte ciò, se vogliamo
che la Lega arrivi da sola al 50% continuiamo così, mi raccomando.
Se guardiamo con attenzione al problema dell’immigrazione, possiamo
notare che esso non è “affrontato” né nel suo aspetto locale né in
quello globale. È semplicemente “usato” dal Potere perché destra e
sinistra “vi smaltiscano, accademicamente, i vecchi sentimenti”, lottino attorno a “temi della restaurazione classica” mentre il Potere prosegue nelle cose che contano e che sono celate alla vista e “distrugge rivoluzionariamente (rispetto a se stessa) tutte le vecchie istituzioni sociali” così come Pier Paolo Pasolini aveva capito benissimo già negli anni Sessanta. E prima di lui Gramsci.
I ceti sofferenti, che di fatto formano la maggioranza della
popolazione, sono ormai apertamente indifferenti quando non ostili ai
precipitati della liquefazione della società, come la propaganda, sempre
più aggressiva e fiancheggiatrice delle avventure imperiali, delle
lobby LGBT – che nulla hanno da dire sul prolungato massacro di
esponenti LGBT honduregni perpetrato dai golpisti fascisti di
ispirazione clintoniana, perché, si sa, la Clinton difende e usa queste
lobby, ma che si autoproclamano rappresentanti degli omosessuali – o
quella delle lobby che teorizzano il melting pot per nascondere pratiche di deportazione, due punti unici, a se stanti e isolati in un deserto riarso sui quali invece fa leva la sinistra, ormai incapace di qualsiasi proposta sociale.
Si crea così un giro vizioso tra l’emergere reale di omofobia e
razzismo o l’emergere di reazioni d’altra natura ma che vengono
immediatamente tacciate di omofobia e razzismo – mentre dovrebbero
essere analizzate e affrontate in modo diverso – e gli strilli
antiomofobici e antirazzisti di quelle medesime lobby in cerca di
legittimazione.
Tutto questo sovraespone soggetti deboli che perciò non dovrebbero essere assolutamente sovraesposti per mene di potere e propaganda. Chi ne soffre sono quindi gli immigrati in carne ed ossa, gli omosessuali fuori dai giri di potere, i bambini (sempre tirati in ballo!), gli “altri”, i “diversi”. E con essi tutti gli ideali di libertà, eguaglianza, fratellanza e protezione per i più deboli.
- A fronte di tutto ciò si capisce allora perché società più “tradizionali” come quella russa siano viste da parte dell’ideologia imperiale come fortezze di oscurantismo mentre da parte di chi soffre proprio per le politiche imperiali siano viste come un contrappeso alla decadenza da Basso Impero che oggi pervade la “società liquida” dei vecchi centri capitalistici occidentali.
Anche questo genera confusione, a volte bizzarri sogni persino
pre-illuministici e pericolose propensioni a tirare il manico troppo da
una parte o dall’altra e, ancora una volta, a non capire i processi
reali (e per capire questi processi non bisogna dimenticare ad esempio
che la Russia, straordinario Paese con una straordinaria cultura, ha una
storia e geo-storia politica e sociale molto differente da quella
dell’Europa Occidentale).
Ma al di là di queste confusioni e bizzarrie – non raramente anche
irritanti – la decadenza occidentale è reale ed ha un nome specifico che
ormai conosciamo: “crisi sistemica”. Crisi quindi non
congiunturale ma epocale, come ce ne sono state ad ogni trapasso di
egemonia da quando è iniziata la storia del capitalismo: da Venezia agli
Stati Iberici, dagli Stati Iberici alle Province Unite d’Olanda, dalle
Province Unite alla Gran Bretagna, dalla Gran Bretagna agli USA. Dagli
USA a … ????
Gli Stati Uniti stanno sperimentando una crescente difficoltà a
mantenere il proprio predominio globale e vecchi geo-strateghi col pelo
sullo stomaco come Henry Kissinger ammettono che non c’è più niente da
fare. Può essere, tuttavia, che non si riesca a ricostruire nessun nuovo centro egemonico mondiale
(né da parte della Cina, ad esempio, né da parte della Russia o altro
attore internazionale di peso) e si finisca in uno stato di caos
sistemico permanente o di anarchia permanente di mercato. O che una
guerra mondiale per l’egemonia ci faccia tutti a pezzi. O che finalmente
si instauri il Socialismo in tutto il mondo. Qualcuno veramente può
dire di saperlo?
Chi dice di sapere come andranno le cose per me è una persona
inattendibile a cui non chiedere nemmeno che ora è. E i più
inattendibili sono gli “specialisti”, proprio perché la specializzazione
non è in grado di fornire nemmeno una parte del complesso quadro della
crisi sistemica in cui intricate lotte generate dal Potere del Denaro si
intrecciano con quelle forse ancor più intricate indotte dal Potere del
Territorio, distribuite tra molte formazioni statali, sociali e
culturali differenti, con storie differenti, problemi differenti,
potenzialità differenti, esigenze differenti e prospettive differenti.
- La globalizzazione è stata la prima modalità relativamente organica di gestione della lunga crisi sistemica (venuta a galla con la dichiarazione d’inconvertibilità del Dollaro in oro, cioè col Nixon shock del 1971, e non con la crisi dei subprime come dicono gli economisti alla moda, che è solo una sotto-crisi, un di cui del tutto). Con la globalizzazione il capitalismo finanziarizzato occidentale intercettava la ricchezza reale prodotta al di fuori dei centri capitalistici tradizionali dove i margini di profitto erano quindi ancora alti, o quanto meno “accettabili”. Ma la globalizzazione ha infine fatto emergere inintenzionalmente i nuovi grandi competitor, i BRICS, alcuni dei quali, Russia e Cina sono ampiamente al di fuori delle possibilità di assoggettamento politico statunitense (cioè del vecchio centro egemonico).
Pur nella sua confusione (dovuta alla lotta interna per il potere), la strategia imperiale sembra quindi quella di creare una cintura di caos e instabilità intorno
a queste due nazioni sperando che nel frattempo la loro situazione
politica e sociale si deteriori (cosa non impossibile). Cintura fatta da
sanzioni, dazi, propaganda bellicosa fino al limite del delirio e,
ahimè, da milioni di morti e che finora ha inanellato la Libia, la
Siria, l’Afghanistan, l’Iraq, il Myanmar, il Donbass, e ora il
Venezuela, il subcontinente indiano (con le storiche tensioni attorno al
Kashmir e le nuove avvisaglie nello Sri Lanka), in vista del caos da
esportare in Libano, in Iran in tutta l’Asia Centrale e in mezza Africa.
Il sovranismo è il nuovo modo per affrontare la
crisi, che soppianta un globalismo che dà ritorni decrescenti e, anzi,
ormai sempre più negativi se misurati col metro della politica e del
potere.
Il vorrei-ma-non-posso “neo-isolazionista” di Trump non nasce a caso
ed è sostenuto da una parte delle élite statunitensi (soffermarsi sul
solo personaggio Trump fa capire poco e lo lasciamo al divertissement della sinistra).
Osteggiato dal vecchio establishment finanz-globalista (i clintonoidi
americani ed europei, per intenderci) che da un lato teme di perdere
privilegi e dall’altro non riesce a schiodarsi ideologicamente dai miti
che per trent’anni si è costruito da solo, il sovranismo è lo sbocco odierno della crisi sistemica.
Sembra una novità, ma non lo è, perché lo troviamo come fase ricorrente
delle crisi sistemiche. Una fase pericolosa certo, perché può
trasformarsi in lotta tra nazionalismi contrapposti, ma la fase
precedente, quella globalista, ormai è finita e non è meno pericoloso
intestardirsi a prolungarla, anche perché, come ammetteva spudoratamente
il già citato Kissinger, “globalizzazione” non era che “un altro
termine per indicare il predominio americano”.
Una globalizzazione 2.0, se ci sarà, sarà una cosa molto diversa e passerà dalla strettoia dei sovranismi.
- L’Europa, e in mezzo ad essa l’Italia, fa il vaso di coccio stritolata dalle forze che si contendono il nuovo primato egemonico (che magari, per l’appunto, non vedrà mai la luce a causa della dissociazione dei suoi ingredienti di base: la capacità bellica, quella politica e infine quella di governo dei processi sistemici di accumulazione).
Se un Paese, il nostro, che era la settima potenza industriale del
mondo (anzi, secondo le accreditate statistiche di Angus Maddison, nel
1990 eravamo balzati al 5° posto) e che ha tuttora le terze riserve
auree del mondo, riesce tra il 2000 e il 2017 a far crescere il PIL di
un misero +2,6% contro il +25,9% dell’Europa (senza Italia), vuol dire
che siamo di fronte a scelte politiche prolungate e bipartisan, non ad
errori. C’è quindi una specificità italiana che è in parte spiegabile
col fatto che la UE è sostanzialmente una proprietà franco-tedesca,
il perfezionamento del trattato di pace tra Francia e Germania se
vogliamo, e che con la Seconda Repubblica il nostro Paese è scivolato ai
gradini più bassi della gerarchia politica europea. Ma a parte questa specificità, tutti gli indicatori segnalano, come ricorda l’articolo, un declino sempre più pronunciato dell’innovazione-ricerca-sviluppo in tutti i Paesi europei.
Da noi questi settori sono storicamente le cenerentole, ma il problema, come si vede, riguarda ormai tutta l’Europa.
Però quante arie continuiamo a darci noi Europei!
Tornato dal mio primo giro presso università tecnico-scientifiche
cinesi, nel 2003, scrissi che loro là, nel Regno di Mezzo, avevano una
Cinquecento, ma ci mettevano la benzina con entusiasmo, noi invece
avevamo una Maserati ma nessuna la riforniva e quindi prima o poi la
loro Cinquecento avrebbe inevitabilmente sorpassato la nostra
fuoriserie.
Oggi noi abbiamo una Cinquecento a secco e loro una Maserati che non sta mai ferma.
Vabbè, corsi e ricorsi: attorno all’anno 1000 la percentuale cinese del PIL mondiale era più del doppio di quella dell’Europa (quella dell’India era quasi il triplo!).
di Piotr.
Fonte: https://megachip.globalist.it