L’Occidente raccoglie quello che semina e sta crollando tra militarizzazione e cretinizzazione
Un popolo è fallito quando pensa di cambiare le cose delegando il proprio destino alle persone intelligenti che il danno lo hanno creato, rimango nella convinzione che solo gli stupidi potranno fare qualcosa di utile per cambiare il corso degli eventi, fermo restando che prima o poi ognuno di loro avrà la convinzione di essere finalmente approdato al livello intellettivo dei suoi predecessori e finiranno per ripetere gli stessi errori e tornare al punto di prima.
Sono un pessimista fallito lo so, nella vita la norma è perdere, ma non fateci caso, tanto so che per la maggioranza di voi sicuramente andrà tutto bene 🙂
Toba60
Siamo tra i più ricercati portali al mondo nel settore del giornalismo investigativo capillare ed affidabile e rischiamo la vita per quello che facciamo, ognuno di voi può verificare in prima persona ogni suo contenuto consultando i molti allegati (E tanto altro!) Abbiamo oltre 200 paesi da tutto il mondo che ci seguono, la nostre sedi sono in Italia ed in Argentina, fate in modo che possiamo lavorare con tranquillità attraverso un supporto economico che ci dia la possibilità di poter proseguire in quello che è un progetto il quale mira ad un mondo migliore!
L’Occidente sta crollando
La guerra digitale, così come viene condotta oggi da potenze come gli Stati Uniti, Israele e la Cina, non si riduce a un semplice scontro tecnico o a una questione di sicurezza informatica. Lontano dall’idea di uno spazio libero e democratico, Internet è diventato un campo di battaglia dove la sorveglianza e la manipolazione delle masse sono diventate strategie di controllo totalitario. Questa militarizzazione di Internet è un’estensione della logica di guerra permanente a cui l’Occidente sembra condannato, e ne rivela le falle con un sistema di cretinizzazione del pensiero che si rafforza attraverso la repressione, l’intimidazione e il condizionamento.

Uno dei principali attori di questa militarizzazione è, ovviamente, la DARPA, l’agenzia di ricerca della difesa degli Stati Uniti. Finanziando la creazione di Internet, la DARPA non ha solo creato una rete di comunicazione, ma anche un campo di operazione per la guerra tecnologica. Internet, che aveva l’aspetto di uno strumento per connettere l’umanità, è stato trasformato in una piattaforma di sorveglianza e infiltrazione. L’ossessione di mantenere il dominio militare ha portato alla strumentalizzazione di uno spazio digitale in cui ogni gesto, ogni interazione, diventa un dato analizzato per rafforzare il controllo e assoggettare gli individui.
La DARPA, con il suo ruolo nella progettazione dell’Internet moderno, continua ovviamente a finanziare e supervisionare la ricerca in settori sensibili come l’intelligenza artificiale, la robotica, le reti neurali e gli attacchi informatici. Questa agenzia americana, fondata negli anni ’50, incarna la fusione tra innovazione tecnologica, sorveglianza generalizzata, ottundimento delle masse e sicurezza nazionale. Sebbene le sue missioni siano cambiate dalla fine della Guerra Fredda, la DARPA rimane un attore chiave nella guerra digitale, in particolare collaborando con i giganti della tecnologia per sperimentare tecnologie di sorveglianza di massa e manipolazione dei dati su larga scala.
Ma la DARPA non è sola. Nell’ombra, agenzie come la NSA (National Security Agency) hanno trasformato Internet in un terreno privilegiato per lo spionaggio. Grazie alle rivelazioni di Edward Snowden, il mondo ha preso coscienza della portata della sorveglianza che la NSA esercita sulle comunicazioni globali. Intercettando miliardi di messaggi, conversazioni e dati personali, la NSA tesse una rete di spionaggio globale, spesso in collaborazione con aziende private come Google, Apple e Microsoft. Attraverso programmi come PRISM e XKeyscore, la NSA ha creato un ecosistema di spionaggio digitale in cui i confini tra sorveglianza nazionale e internazionale sono sempre più sfumati. L’agenzia ha così la capacità non solo di influenzare le politiche interne delle nazioni, ma anche di manipolare gli eventi geopolitici, divulgando informazioni sensibili o confondendo le tracce.
Anche l’unità 8200 israeliana, una delle divisioni dell’esercito israeliano, si è affermata come un attore imprescindibile in questo campo. Il suo ruolo, sia nella sicurezza informatica che nelle operazioni di intelligence elettronica, è di importanza strategica per Israele. L’unità 8200 è specializzata in attacchi informatici offensivi e sorveglianza delle comunicazioni. Ha svolto un ruolo chiave in operazioni contro infrastrutture critiche in Iran, in particolare sabotando il suo programma nucleare tramite attacchi informatici sofisticati come Stuxnet o l’esplosione dei cercapersone.
Inoltre, Israele ha utilizzato la guerra digitale per influenzare le relazioni internazionali, conducendo attacchi informatici contro i nemici e destabilizzando i regimi attraverso operazioni di manipolazione delle informazioni, saturazione dei social network ed estrema censura dei commenti bellicosi contro la loro sanguinosa colonizzazione. Questa capacità di combinare attacchi informatici e guerra dell’informazione pone Israele al centro dell’arsenale digitale delle grandi potenze.
Tuttavia, la militarizzazione di Internet da parte di queste forze non si limita a difendere interessi geopolitici, ma simboleggia anche l’ultima risorsa dell’Occidente per mantenere la propria egemonia in un mondo in cui le regole della guerra sono sempre più distanti da ogni forma di razionalità e giustizia. Agendo in questo modo, l’Occidente, la cui decadenza sembra non avere più limiti, si chiude in un modello di governance basato sull’accumulo di potere e controllo, anche a costo di sacrificare la propria etica e il proprio pensiero critico.
Parallelamente a questa militarizzazione, Internet sta diventando anche uno strumento di sistematica cretinizzazione delle masse. Questo fenomeno, particolarmente evidente nei social network, non è solo una questione di dipendenza o distrazione, ma una strategia di controllo sociale che si basa sulla riduzione degli individui a semplici consumatori di informazioni, manipolabili a piacimento. Se l’Occidente, un tempo roccaforte dell’Illuminismo e del pensiero critico, sta diventando un terreno in cui l’opinione pubblica è plasmata da bot e algoritmi, ciò è soprattutto segno di un profondo collasso intellettuale e morale.
I giganti della tecnologia, come Facebook, Google e Twitter/X, non si accontentano più di raccogliere dati personali, ma partecipano attivamente a questo deterioramento cognitivo controllando il modo in cui pensiamo e agiamo. I loro algoritmi sono progettati per catturare la nostra attenzione e mantenerla attraverso contenuti emotivamente carichi e spesso polarizzanti, creando una sorta di “bolla di filtraggio” in cui l’opinione individuale è ridotta a un’eco dei propri pregiudizi. La macchina dell'”e-learning” (apprendimento in tempo reale), che analizza le nostre preferenze, abitudini, paure e desideri, serve non solo ad anticipare i nostri comportamenti di consumo, ma anche a influenzarli in modo più o meno sottile.
Ma ancora più grave è il fatto che la comparsa di bot e agenti virtuali sulle piattaforme social ha permesso la diffusione su scala industriale di disinformazione, fake news e narrazioni semplicistiche. Questo processo trasforma il pensiero umano in una forma di consumo intellettuale in cui gli individui sono ridotti a semplici ricevitori passivi. I dibattiti pubblici non sono altro che un groviglio di messaggi distorti dai bot che amplificano la polarizzazione, alimentando così uno stato di confusione permanente che alimenta una cretinizzazione collettiva.
In questo contesto, Internet non è più solo uno strumento di distrazione o di controllo, ma diventa una macchina di decerebrazione. La democrazia occidentale, che dovrebbe essere il crogiolo della discussione razionale e del dibattito di idee, è ormai sommersa da un’ondata di rumore digitale che soffoca il pensiero critico e svaluta l’intelligenza umana. L’influenza dei bot e degli algoritmi di raccomandazione dimostra chiaramente che ci troviamo in un’era in cui la tecnologia, lungi dal liberare gli individui, li trasforma in semplici esecutori di una tecnostruttura che tira le fila del loro comportamento e delle loro opinioni.
Le delusioni digitali sono apparse in modo sottile. All’inizio si trattava di pubblicità più mirate e più adeguate. Poi sono arrivati i suggerimenti di film o libri che sembravano conoscere i nostri gusti meglio di noi stessi. Ma oggi non sono più solo le nostre preferenze ad essere raccolte. Le nostre interazioni online, le nostre ricerche, i nostri spostamenti, le nostre conversazioni… tutto viene osservato, analizzato e poi sfruttato. La questione non è più se i nostri dati vengono raccolti, ma come vengono utilizzati contro di noi. Questa realtà, sebbene sempre più evidente, rimane ancora largamente ignorata, avvolta da un velo di illusione di “libertà digitale”.
Al di là delle questioni tecniche, questo fenomeno di militarizzazione e cretinizzazione digitale fa parte di un declino civile più profondo. Non si tratta solo di un’evoluzione tecnologica, ma di un’evoluzione morale e intellettuale dell’Occidente, dove la ricerca del potere e del controllo lo ha portato ad abbandonare i principi fondamentali di libertà, ragione e responsabilità. Cercando di imporre un modello di dominio digitale basato sulla sorveglianza e lo sfruttamento delle masse, l’Occidente sembra quindi destinato all’autodistruzione.
Questo declino è tanto più evidente in quanto le tecnologie che avrebbero dovuto favorire l’emancipazione individuale diventano strumenti di disumanizzazione. La guerra digitale, la sorveglianza totale e l’influenza dell’intelligenza artificiale sui nostri comportamenti sono sintomi di una civiltà che cerca nemici ovunque, anche a costo di sacrificare la propria anima per preservare un ordine mondializzato basato sulla paura e sulla manipolazione. Attraverso questa dinamica, l’Occidente rivela la sua profonda crisi di senso, la sua impotenza di fronte alla complessità del mondo e la sua tendenza a ridurre gli individui a attori passivi in un grande gioco di poteri tecnologici. Così, la cretinizzazione digitale attraverso Internet ci lascia poco a poco in un campo di rovine intellettuali sotto il dominio tecnologico.

Infatti, quella che doveva essere una nuova era della conoscenza è diventata una fiera algoritmica dove l’ignoranza viene esibita con orgoglio, dove la sorveglianza si nasconde dietro interfacce intuitive e dove il pensiero svanisce sotto il peso del clic. Internet è oggi un campo minato cognitivo, un territorio occupato e militarizzato, dove la guerra non si combatte più con le armi, ma con dati, narrazioni distorte e interfacce che creano dipendenza. Dietro la patina della modernità digitale, si sta quindi svolgendo una vasta operazione di lobotomia a cielo aperto. Gli Stati, le multinazionali e i loro ingegneri dell’alienazione hanno trasformato questa rete in un sofisticato panopticon, dove ogni gesto, ogni opinione, ogni parola viene scrutata, incanalata e, soprattutto, monetizzata.
È importante rendersi conto che le origini di Internet non sono affatto neutre. Non è nato in un’università utopista, ma nei laboratori militari della DARPA, il braccio armato del Pentagono. Il DNA della rete è quindi quello di un’arma e la sua logica evoluzione l’ha portata a una militarizzazione totale. Dal progetto ARPANET all’Unità 8200 israeliana, passando per Milnet, Stuxnet e NotPetya, ogni evoluzione della rete ha accentuato la sua natura bellicosa e la sua funzione strategica. Non è più una rete aperta, virtuale e decentralizzata, ma un vero e proprio terreno di operazioni per combattimenti cibernetici invisibili.
Gli eserciti digitali sostituiscono i battaglioni, i virus sostituiscono i missili. E mentre il grande pubblico consuma selfie, meme e like, potenze invisibili ridisegnano le mappe geopolitiche attraverso righe di codice. Le guerre contemporanee non uccidono più direttamente, ma indeboliscono, disorientano e distruggono silenziosamente. Il cyberspazio è diventato un teatro operativo mondiale, dove gli obiettivi sono ormai la destabilizzazione, la manipolazione dell’opinione pubblica, l’influenza sulle elezioni e la creazione di fratture sociali, senza che la maggioranza se ne renda conto. Tutto si svolge dietro le quinte, invisibile agli occhi del cittadino medio, che vede nelle sue interazioni digitali solo una ricerca di semplicità, comodità ed efficienza.
Ma la guerra digitale non ha solo un fronte militare, ha anche un fronte mentale. Perché la cretinizzazione di Internet è la strategia di dominio più efficace mai concepita. Sun Tzu ha sottolineato l’importanza dell’astuzia nella strategia militare, in particolare consigliando di “fingere debolezza per indurre il nemico all’arroganza” perché “tutta l’arte della guerra si basa sull’inganno”. Laddove poteva emergere il pensiero critico, è stata iniettata una dose massiccia di insignificanza. Le piattaforme social, concepite come strumenti di liberazione, sono diventate arene di condizionamento emotivo. L’intelligenza artificiale, mascherata da alleata della produttività, è l’arma della menzogna ottimizzata, dei contenuti preconfezionati, del dibattito evitato.
I bot sostituiscono i cittadini, gli algoritmi dettano la visibilità. La conoscenza non è più una ricerca, ma un suggerimento sponsorizzato. Gli articoli sono sommersi da commenti automatici, pavloviani, analfabeti, il cui unico scopo è quello di affogare il pensiero in un oceano di rumore. Gli autori non sono più pensatori, ma generatori di contenuti formattati, calibrati per assecondare l’isteria collettiva o provocare polemiche istantanee. Queste interazioni virtuali, spesso prive di significato profondo, sono calibrate per catturare la nostra attenzione e generare reazioni superficiali, in totale disconnessione con le realtà complesse e sfumate che dovrebbero animare la riflessione.
Internet, in quanto spazio digitale aperto e democratico, è stato trasformato in una macchina di riduzione cognitiva. Piattaforme come Facebook, Instagram, TikTok e altre sono diventate macchine per ridurre l’intelletto umano, alimentando un consumo incessante di contenuti creati per suscitare reazioni, non per far riflettere. Il sistema, progettato per massimizzare il coinvolgimento a tutti i costi, favorisce i contenuti più emotivi, più semplicistici, più polarizzanti. La cultura dell’immediatezza e della gratificazione istantanea uccide la riflessione approfondita e l’analisi critica. Siamo entrati nell’era della tecnolatria e dell’idiozia programmata.
I geek moderni, figli benedetti del capitalismo digitale, sognano di costruire un mondo nuovo. Ma non sono altro che zelanti esecutori, entusiasti aiutanti di un sistema che li supera. Incensano il codice, venerano l’algoritmo, predicano la soluzione tecnica come se potesse redimere l’umanità dalla sua mediocrità. Sono i nuovi devoti della religione digitale, che sostituiscono l’antico clero con righe di comando, i dogmi con righe di codice.
Credono di codificare la libertà, ma costruiscono prigioni trasparenti. Si definiscono rivoluzionari, ma non fanno altro che perfezionare le catene. Il loro ideale utopico si basa su una fede ingenua nella tecnologia, una fede cieca che ignora le profonde conseguenze del dominio digitale. Imponendo un mondo di controllo totale, dove ogni movimento, ogni pensiero, ogni desiderio viene registrato, classificato e sfruttato, tutto in nome dell’efficienza e della “libertà digitale”. Siamo passati dal trotskismo al tecnocretinismo. Dall’insurrezione ideologica siamo caduti in un conformismo asettico, dove la tecnologia dovrebbe risolvere tutti i mali senza mai mettere in discussione le strutture di potere. Il paradosso è che all’epoca si combatteva contro le élite, mentre oggi le serviamo ciecamente, consegnando loro le chiavi delle nostre vite con il pretesto del progresso.
Certo, il parallelo storico è brutale, ma inevitabilmente chiaro. I geek moderni, questi predicatori del cyber-edenismo, si rivelano gli eredi di un’ideologia tecnolatrica tanto cieca e dottrinaria quanto quella dei trotskisti di un tempo. Condividono lo stesso fervore religioso per la loro utopia digitale, la stessa certezza dogmatica che la soluzione tecnica sia la risposta a tutti i mali dell’umanità, senza mai preoccuparsi delle derive e delle inevitabili conseguenze dei loro sogni astratti. Non vedono che dietro ogni promessa di libertà digitale si nasconde un sistema di controllo perfezionato, un’alienazione sottilmente orchestrata.
Laddove i marxisti promettevano l’emancipazione attraverso la dittatura del proletariato – che non è mai stata altro che un’illusione di liberazione per instaurare una nuova forma di autorità – i nostri attuali tecnofili propongono una promessa ancora più insidiosa di “libertà” attraverso la dittatura dei dati. Ma questa presunta libertà, come una merce ben confezionata, nasconde una servitù ancora più perfida. Perché, in realtà, questa dittatura dei dati non è altro che una schiavitù digitale, in cui l’individuo, sotto la maschera della libertà individuale, diventa un prodotto da ottimizzare e controllare. Si tratta di una schiavitù perfettamente calibrata, invisibile a occhio nudo ma onnipresente, che sorveglia, analizza e condiziona ogni movimento del pensiero e dell’azione.
Questi nuovi “socialisti”, relitti decrepiti di un trotskismo mal digerito, si aggrappano a dogmi ormai superati con l’ostinazione di menti incapaci di vedere che il mondo è cambiato senza di loro. Bloccati in una dialettica polverosa, ripetono i mantra di una rivoluzione fantastica, rimuginando slogan obsoleti sulla lotta di classe, come se le fabbriche fumanti e le barricate del 1917 potessero riapparire in un mondo ormai digitalizzato, algoritmizzato, dissolto nella rete del capitalismo tecnologico.

Rinchiusi nelle loro certezze, continuano a ripetere la promessa di un proletariato salvifico, anche se oggi il dominio non risiede più nelle fabbriche, ma nei server, nei dati, nei flussi invisibili che modellano le nostre vite attraverso il targeting comportamentale e l’intelligenza artificiale. Sono ciechi orgogliosi della loro cecità, oratori di una guerra già persa, incapaci di riconoscere che il potere ha cambiato volto perché non indossa più il berretto né fuma il sigaro, ma si veste di codice sorgente e parla in linguaggio binario. Perpetuando i loro discorsi fossilizzati, non combattono il sistema, lo servono. Peggio dei reazionari, sono fantasmi militanti di un’epoca passata, trasformati loro malgrado in utili burattini di un ordine digitale che li schiaccia lasciandoli credere di resistere.
Proprio come i loro predecessori trotskisti, i geek moderni nutrono un sapiente disprezzo per la realtà. La loro visione è solo un deserto di idee in cui l’astrazione tecnologica e l’ossessione per l’efficienza prevalgono su qualsiasi riflessione etica o umana. Al posto degli slogan rivoluzionari del passato, ci offrono “dashboard” piene di “notifiche” che ci mantengono in una passività attiva, un’inerzia intellettuale che si maschera da attività digitale. In fondo, non è la libertà che cercano di offrire, ma la totale e definitiva riduzione dell’individuo alla sua semplice funzione di consumatore, un ingranaggio in più in una macchina gigante, dove ogni azione è calcolata, misurata e sfruttata per aumentare l’efficienza del sistema.
Il “tecnolatismo” non è altro che una forma moderna di totalitarismo, ancora più insidiosa perché si ammanta di virtù progressiste e di una pseudo-etica che nasconde i suoi interessi economici e politici. Dietro gli schermi luminosi, la promessa di “connettere il mondo” e “liberare le masse” non fa altro che mascherare il controllo assoluto su tutti gli aspetti dell’esistenza umana. Non è più il proletariato che cercano di asservire, ma l’umanità intera, frammentata, digitalizzata e rinchiusa in prigioni invisibili ma ermetiche, dove ogni gesto e ogni pensiero è calcolato per massimizzare l’impegno e la redditività.
Quindi, proprio come le rivoluzioni del passato non sono riuscite a portare la libertà, questo nuovo sogno tecnologico non fa altro che precipitarci in un disastro digitale in cui l’illusione della libertà e della democrazia non fa altro che mascherare la perfetta schiavitù della mente umana. La questione non è se saremo liberi, ma chi ci governa in questa era in cui i dati sono le nuove armi di controllo. Il risultato è lo stesso: uniformità, sorveglianza, pensiero unico sotto steroidi tecnologici. Le masse non si lasciano più ingannare dai manifesti, perché sono ipnotizzate dalle interfacce. L’ideologia si è semplicemente raffinata, non offrendo più slogan, martelli e falci. Solo “cruscotti”, notifiche, “nudges” cognitivi. Il totalitarismo ha cambiato pelle, ma non natura. Rimane quindi, come nei vecchi tempi comunisti, l’illusione della scelta e la realtà del controllo.
Il più grande successo di questa nuova forma di dominio è quello di aver mascherato la sottomissione come comodità, la manipolazione come servizio, l’alienazione come esperienza personalizzata. Il cittadino diventa consumatore, poi cliente, poi prodotto, poi dato. Non ha più opinioni poiché ha preferenze prevedibili. Non legge più, scorre. Non riflette più, reagisce. Nel frattempo, potenze digitali come Google, Meta, Amazon, Palantir e simili plasmano il mondo secondo i propri interessi. Non conquistano il territorio, ma l’attenzione. Non attaccano tanto le risorse naturali quanto le menti. Queste aziende controllano l’accesso alle informazioni e creano spazi in cui l’illusione della libertà digitale maschera la realtà di un controllo assoluto.
I giganti del digitale non sono gli unici responsabili della sorveglianza globale. I governi, attraverso leggi e regolamenti come il Patriot Act negli Stati Uniti o il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) in Europa, hanno legittimato, e persino amplificato, questa raccolta di dati su larga scala. Da un lato, il Patriot Act ha conferito allo Stato americano ampi poteri di sorveglianza sui cittadini e sugli stranieri, consentendo intercettazioni elettroniche e raccolta di dati senza mandato giudiziario. Dall’altro lato, il RGPD, sebbene miri a proteggere i dati personali dei cittadini europei, rimane una risposta insufficiente di fronte alla crescente sofisticazione delle tecnologie di sorveglianza utilizzate dalle aziende e dagli Stati.
Il fenomeno dell’Internet delle cose (IoT), che collega tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana a Internet, accentua ulteriormente questa sorveglianza. Oggetti apparentemente innocui, come frigoriferi, orologi e persino automobili, tutti connessi, sono ora in grado di raccogliere e inviare dati personali. Questo fenomeno trasforma i nostri spazi privati in veri e propri centri di raccolta di informazioni, rendendo tutta la nostra vita vulnerabile a una sorveglianza continua. Ogni gesto quotidiano diventa un dato che le aziende sfruttano, sia per anticipare i nostri comportamenti sia per rafforzare il loro controllo sulle nostre vite.
La questione centrale non è quindi più se siamo sorvegliati, ma fino a che punto può spingersi tale sorveglianza. La globalizzazione della sorveglianza, resa possibile dalla convergenza tra attori privati e statali, pone una sfida senza precedenti alle società moderne: come proteggere le nostre libertà di fronte a un sistema in cui la privacy è diventata una risorsa, una merce e un’arma nella guerra digitale?
La militarizzazione di Internet e l’imbecillimento delle masse attraverso gli algoritmi sono solo due facce della stessa medaglia di una civiltà in declino, che cerca di mantenere il proprio potere con ogni mezzo, compresa la manipolazione tecnologica. Questo sistema, lungi dall’essere un progresso, diventa una trappola che condanna alla sottomissione intellettuale e all’ottundimento collettivo. L’Occidente, mettendo in atto una tale architettura di controllo digitale, dimostra quanto abbia perso la sua capacità di pensare e reinventarsi, preferendo l’illusione del potere all’esercizio della libertà.

Le potenze statali e i giganti della tecnologia sono i nuovi sovrani di questo territorio virtuale, ciascuno dei quali cerca di mantenere il proprio controllo sulle informazioni, sui dati e sulle vite umane. Il controllo delle masse, attraverso la sorveglianza delle informazioni, l’ingegneria comportamentale e le operazioni informatiche, è ormai una realtà. Viviamo in un mondo in cui la tecnologia, lungi dal liberare l’umanità, contribuisce alla sua decadenza come individuo autonomo e critico. E l’Occidente sembra essere prigioniero della propria creazione, cercando di mantenere il proprio potere attraverso un controllo totalitario delle informazioni, in un’epoca in cui la verità è diventata la prima vittima della guerra digitale.
Raccogli quello che semini….
“Esiste solo una fatalità, quella dei popoli che non hanno più la forza di stare in piedi e si sdraiano per morire. Il destino di una nazione si conquista ogni giorno contro le cause interne ed esterne di distruzione.”
Charles De Gaulle
La Francia, questa antica nazione un tempo orgogliosa della propria indipendenza e sovranità, si trova oggi in una lenta ma inevitabile agonia. Non è solo una crisi economica a bussare alla porta, è un vero e proprio collasso strutturale, un degrado sistemico che sta distruggendo ogni fibra della nostra società. Eppure, invece di agire, sprofondiamo in una negazione sbalorditiva, in una cecità collettiva che fa ancora più male del dolore della caduta stessa.
Immerso in una profonda crisi economica e politica, il Paese sembra oggi correre verso un inevitabile declino, una spirale le cui conseguenze saranno tanto brutali quanto dolorose. Assistiamo a un soffocamento generalizzato, in cui ogni misura adottata da un governo cieco, se non addirittura complice di forze invisibili, ci spinge un po’ più vicino al precipizio. Questa crisi non si limita a cifre o dichiarazioni economiche, ma incarna un profondo processo di degrado e sottomissione. L’intreccio del debito, l’aumento delle tasse e l’assenza di una vera contestazione popolare fanno sì che non si tratti di un incidente, ma di una strategia deliberata, le cui conseguenze non mancheranno di farsi sentire in ogni angolo della società.
Il Paese, paralizzato da un vortice di paure artificiali e bugie sapientemente alimentate, si è lasciato intrappolare in una situazione dalla quale potrà uscire solo attraverso il caos. Il debito, questo mostro creato dal nulla, ci viene presentato come una fatalità con l’aumento delle tasse, la riduzione dei servizi pubblici, l’austerità, ecc… e tutto questo è giustificato da questo fardello apparentemente inevitabile. Ma dietro questo discorso si nasconde una manipolazione sistematica da parte dei nostri governanti corrotti.Il Paese, paralizzato da un vortice di paure artificiali e bugie sapientemente alimentate, si è lasciato intrappolare in una situazione dalla quale potrà uscire solo attraverso il caos. Il debito, questo mostro creato dal nulla, ci viene presentato come una fatalità con l’aumento delle tasse, la riduzione dei servizi pubblici, l’austerità, ecc… e tutto questo è giustificato da questo fardello apparentemente inevitabile. Ma dietro questo discorso si nasconde una manipolazione sistematica da parte dei nostri governanti corrotti.
La Francia non è sull’orlo del default. No, è molto più grave, perché siamo sull’orlo della sottomissione totale, non alla logica economica, ma a un’élite finanziaria che ha capito perfettamente che mantenendo la popolazione in uno stato di paura irrazionale del fallimento, potrà imporre tutto ciò che vuole. Questa “crisi del debito” è soprattutto uno strumento di controllo, un’arma psicologica per preparare l’opinione pubblica ad accettare sacrifici colossali e trasferimenti di ricchezza massicci.
Un debito peggiore della ghigliottina
Non è il debito orchestrato dai nostri rappresentanti politici a strangolarci maggiormente, bensì il debito degli altri, quello che arricchisce le grandi banche, le multinazionali e le famiglie come i Rothschild, che da decenni sono i veri padroni del Paese. Macron è solo una pedina, un burattino di questa oligarchia finanziaria, un prodotto di una scuola in cui gli interessi della finanza sono elevati al rango di dogma. Eppure, questo stesso Macron osa avvolgersi nell’arroganza delle sue riforme dall’insopportabile condiscendenza, trasformando leggi che distruggono il Paese in “riforme necessarie”, come se tutto questo fosse un male per un bene. Ma il male è lì, ben reale, e tutte le famiglie sono schiacciate da tasse sempre più pesanti, i servizi pubblici vengono smantellati e i cittadini diventano schiavi moderni, prigionieri di un sistema economico concepito unicamente per schiacciarli.
E mentre il popolo lavora duramente, il proletariato lotta nella precarietà, i giovani vedono davanti a sé solo l’ombra della povertà e della disillusione, le élite si abbuffano come mai prima d’ora. Le loro pensioni dorate, i loro stipendi indecenti e i loro privilegi sempre più osceni continuano ad aumentare, mentre il denaro pubblico viene sottratto da una classe dirigente scollegata dalla realtà, protetta da leggi che si impegnano a rendere sempre più opache. Il debito è il diversivo, l’albero che nasconde la foresta di una corruzione sistematica che perverte lo Stato e gli impedisce di svolgere il suo ruolo di garante dell’interesse generale.
Rothschild alla guida
L’attuale farsa, in cui la sovranità della Francia sembra ormai un’illusione, affonda le sue radici in un evento importante, ignorato dalla maggior parte degli osservatori al momento dell’approvazione della legge del 3 gennaio 1973. Quel giorno, il governo di Georges Pompidou, ex banchiere presso Rothschild, impose una legislazione che segnò una svolta decisiva nella storia economica del Paese. Questa legge, lungi dall’essere una semplice riforma tecnica, ha concesso alle banche private, tra cui la banca Rothschild, un potere esorbitante sull’emissione monetaria della Francia, privando lo Stato della possibilità di finanziare direttamente i propri investimenti senza passare attraverso i creditori privati.

Si è trattato di una deliberata strangolazione della sovranità nazionale, che ha aperto la strada a un debito pubblico colossale che graverà sulle generazioni future. Consentendo a una manciata di banche di imporre le proprie condizioni allo Stato, Pompidou ha consegnato consapevolmente le chiavi del regno all’alta finanza, rendendo il Paese prigioniero del debito. E come se il colpo di Stato finanziario non bastasse, François Mitterrand, con il pretesto del socialismo, completò l’opera nel 1982 salvando la banca Rothschild dal fallimento, in quella che fu presentata come una “nazionalizzazione” ma che in realtà non era altro che una massiccia iniezione di fondi pubblici per rafforzare il controllo di questa banca sul destino politico del Paese.
Non si trattava di una nazionalizzazione, ma di un regalo avvelenato, un massiccio trasferimento di denaro pubblico a beneficio di una dinastia che continua a influenzare, in modo del tutto opaco, le decisioni che governano il Paese. Da allora, Rothschild ha piazzato i suoi pedoni ovunque, infiltrandosi in ogni angolo del potere, dai ministeri alle banche centrali, dalle riforme di bilancio alla gestione delle privatizzazioni. E da allora, questa banca, con un passato oscuro e carico di compromessi, è diventata il vero padrone del gioco in Francia, dettando la sua politica economica attraverso un debito in continua crescita, con l’unico obiettivo di arricchire un’oligarchia di finanzieri, schiacciando la nazione sotto il peso di una dipendenza finanziaria insostenibile. I veri padroni del Paese sono lì, con i finanzieri che controllano tutto, dalla moneta alla politica estera. Il vero potere non è più all’Eliseo, ma nei salotti ovattati delle grandi banche, nelle conferenze dove il denaro detta legge.
Un popolo che vive nella negazione e nella dissonanza cognitiva
Il popolo, dal canto suo, è ridotto a una massa docile, pronta ad accettare qualsiasi cosa per paura di ciò che non capisce. Abbiamo attraversato decenni di sottomissione, in cui il timore di un collasso economico ha paralizzato lo spirito critico di un’intera nazione. I francesi hanno accettato qualsiasi cosa, le riforme più brutali, più ingiuste, più disumane, in cambio di promesse futili e capri espiatori. Le “riforme” non hanno fatto altro che sprofondare il Paese un po’ più nella miseria, mentre coloro che hanno orchestrato questa discesa agli inferi si sono protetti dietro leggi e protezioni quasi immuni. Ogni piccola riforma è una nuova ferita nel corpo della nazione, ogni misura è una vittoria delle élite e una sconfitta cocente per i cittadini.
Questa situazione non è casuale e non è un caso che le piccole imprese chiudano una dopo l’altra, soffocate da spese bancarie sempre più assurde e da prestiti a tassi usurari. Le banche, queste presunte istituzioni al servizio dell’economia, sono diventate predatori che vivono sulle spalle dei più vulnerabili. Ogni incidente bancario, ogni aggio, ogni commissione abusiva è concepito per svuotare le tasche degli artigiani e dei commercianti, per costringerli a dichiarare fallimento. E questa è una strategia! Un sistema economico concepito per distruggere l’economia reale e concentrare sempre più ricchezza nelle mani dei più potenti. Quando una piccola impresa chiude, non è un evento isolato, ma un altro anello di questa catena di distruzione metodica di un’intera classe media, di un’economia che esiste solo per servire gli interessi dei grandi gruppi finanziari.
Un piano ben collaudato
E mentre il popolo annaspa in questa merda economica, mentre le strade si riempiono di miseria, le élite continuano a giocare i loro giochi con gelida indifferenza. Questi politici non hanno alcuna legittimità popolare. Macron, incarnazione perfetta di questa casta, non fa altro che incarnare questa deriva in cui il potere non è più nelle mani dello Stato, ma in quelle di poche banche e multinazionali. Sotto la maschera di un governo “riformatore” si nasconde la realtà di una dittatura dei mercati, che schiaccia tutto al suo passaggio per servire interessi stranieri. La Francia non è più uno Stato sovrano, è un’azienda privata, gestita come una PMI o (una start-up!) da finanzieri avidi e senza scrupoli.
Del resto, le incessanti dispute tra le figure sovraniste francesi non sono solo il riflesso di rivalità personali o ambizioni mal orientate, ma traducono soprattutto una debolezza strutturale che alimenta instancabilmente il dominio dell’Unione Europea, della NATO e delle élite globaliste. Anziché unirsi in un’azione comune, i leader patrioti si accontentano di neutralizzarsi a vicenda in una danza di scontri e candidature isolate, tanto vanamente disperse quanto incoerenti.
Ogni elezione presidenziale diventa teatro di scontri interni in cui non si combatte contro l’oligarchia, ma per l’ego di ciascuno. Questa frammentazione, che avrebbe potuto essere un semplice epifenomeno, diventa oggi un meccanismo temibile al servizio dell’ordine costituito. Il sovranismo si trasforma così in un vicolo cieco politico, incapace di superare la soglia simbolica dell’1%, bloccato nell’autosabotaggio delle proprie ambizioni.
Questo blocco interno avvantaggia magistralmente i globalisti e l’apparato di Bruxelles. E contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questi ultimi non hanno nemmeno più bisogno di schiacciare il campo sovranista, poiché esso si autodistrugge ad ogni elezione, a causa di una divisione che sembra ormai irreversibile. Ogni figura patriottica, nel suo desiderio di imporre la propria legittimità, alimenta una competizione sterile, che allinea i risultati elettorali al fallimento sistematico. In assenza di una vera risposta politica, l’instabilità si intensifica e con essa la possibilità di una rivolta popolare.
I media, dal canto loro, fungono da cassa di risonanza di questa guerra fratricida, dando un’eco sproporzionata a queste divisioni per rafforzarne la percezione e screditare qualsiasi alternativa credibile. La storia, tuttavia, ci insegna che la riconquista politica non si ottiene con la dispersione. La Russia di Putin e l’America di Trump sono esempi che dimostrano che un movimento radicato e unito, in grado di federare forze diverse attorno a un progetto sovrano, può scuotere le fondamenta del globalismo.
Ma la Francia sembra incapace di uscire dalla propria trappola di inevitabile divisione, alimentata da ego gonfiati e dall’incapacità di superare il gioco individuale. Finché questa situazione persisterà, il sovranismo francese rimarrà una corrente marginale, nonostante l’immensa aspettativa popolare per una nazione libera e indipendente. Tuttavia, la questione non è sapere se questi leader siano sinceri, ma piuttosto se sia possibile unire le loro forze prima che la Francia scompaia nel limbo del globalismo.
Agenti del caos su tutti i siti di informazione
Inoltre, i commentatori da salotto, questi pseudo-specialisti della quotidianità e della verità, si scagliano sistematicamente contro coloro che cercano di aprire gli occhi alla popolazione. Non appena un autore indipendente, una voce dissonante, osa avventurarsi fuori dai sentieri battuti, viene immediatamente preso di mira da un esercito di troll e agenti infiltrati, spesso molto più numerosi dei difensori della Francia stessa. Sia sui siti di controinformazione, che dovrebbero rappresentare un’alternativa, sia attraverso i video TikTok e i commenti online, il messaggio è sempre lo stesso: soffocare la verità, mascherare la realtà, erigere falsi profeti a sentinelle del pensiero unico. Questo bombardamento di critiche, disinformazione e attacchi sistematici è orchestrato per mantenere le masse in uno stato di sottomissione mentale e ignoranza collettiva.

Cercare di educare i francesi oggi equivale a seminare semi nel parcheggio di un supermercato. È un’impresa destinata al fallimento prima ancora di iniziare. Le mentalità sono diventate rigide come pavimentazioni stradali e la volontà di comprendere o di elevarsi intellettualmente sembra dissolversi sotto la pressione del conformismo e dell’inerzia intellettuale. Lo sforzo di trasmissione si scontra con muri di indifferenza, dove l’ignoranza si pavoneggia orgogliosamente e lo spirito critico è ridotto a un concetto obsoleto, riservato alle vecchie generazioni. L’idea stessa di mettere in discussione le proprie certezze o di investire nell’apprendimento è percepita come un compito inutile, un lusso di altri tempi. Di fronte a una popolazione più interessata all’ultimo programma televisivo che alla lettura di un’opera profonda, l’educatore diventa un costruttore di castelli di sabbia in un oceano di nulla.
E in questo incessante vociare di inutili troll, emerge una verità inquietante che fa sì che anche tra i più agguerriti difensori della sovranità francese cominci a prendere forma una domanda devastante. Perché l’incapacità del popolo di svegliarsi, la sua volontaria sottomissione alle manipolazioni del sistema, la sua compiacenza nei confronti dei propri aguzzini rischia di rendere obsoleto il loro impegno.
Dopo tutto, se non siamo nemmeno in grado di difenderci da un tale flusso di oppressione intellettuale, non è forse meglio lasciar perdere tutto, abbandonare questo Paese e la sua popolazione che, in fin dei conti, sembra condannata a subire il destino che merita per la sua inazione? La verità è crudele, ma è inevitabile, poiché si raccoglie ciò che si semina. E se la Francia si lascia travolgere, forse è il prezzo che deve pagare per aver ignorato troppo a lungo gli avvertimenti.
Il problema si chiama “Unione Europea”
Ma non sono solo le carenze interne a condurci verso il caos. L’isolamento geopolitico della Francia, il suo coinvolgimento in conflitti che non controlla e la sua sottomissione alle ingiunzioni dell’Unione Europea e della NATO aggravano la crisi. La guerra in Ucraina, le cui conseguenze si estendono ben oltre i suoi confini, indebolisce ulteriormente il Paese, inasprendo le divisioni sociali e culturali. Il popolo francese, già messo in ginocchio da politiche economiche disastrose, si ritrova intrappolato in un potere europeo autoritario che impone la guerra e l’austerità in nome della sicurezza.
Perché oggi l’UE, lungi dall’essere la soluzione, è un altro anello visibile di questa catena di oppressione. Con il pretesto della stabilità, della sicurezza e della crescita, che non hanno mai visto la luce, questa “unione” è diventata una gabbia, una macchina autoritaria che schiaccia i popoli sotto il peso di sanzioni assurde, guerre ingiustificate e riforme imposte. Ursula Von der “La iena”, predicando la fine della “gabbia dell’unanimità”, segna la fine della sovranità delle nazioni e la vittoria dell’oligarchia sovranazionale. L’Unione Europea non è più un progetto di cooperazione, è un progetto di asservimento, dove i popoli sono ridotti al silenzio, imbavagliati da leggi dettate da Bruxelles, sotto l’occhio vigile della NATO.
Mentre l’Unione Europea, sotto la guida di Washington, si impegna in una fuga in avanti autoritaria, i paesi del blocco multipolare, come la Russia e la Cina, stanno costruendo un’alternativa basata sulla sovranità. La frattura è netta. L’UE, nella sua ricerca di sottomissione all’imperialismo americano, sembra condannare i suoi popoli a un futuro di guerra, repressione e dipendenza. Il mondo sta cambiando e, lungi dall’uscirne indenne, anche la Francia si ritrova nell’occhio del ciclone.
Il finale è vicino
Ma all’interno di questo sistema folle esiste ancora un popolo, un’umanità che sta cominciando a risvegliarsi, a capire che non è più padrona del proprio destino. Certo, la stragrande maggioranza dei francesi continua a rassegnarsi, a subire, ma questa rassegnazione potrebbe raggiungere i suoi limiti quando i frigoriferi saranno vuoti. Altrove, la crescente contestazione continua ad essere anestetizzata dai media che fungono da semplici portavoce del potere costituito. Eppure i segnali ci sono e la frattura è evidente. Si può sognare pensando che più di un milione di francesi hanno firmato un referendum contro l’immigrazione lanciato da Philippe de Villiers, un segno evidente che la rabbia popolare è al culmine. Ma questo rimane comunque una goccia nell’oceano della depravazione e della decadenza. E se non facciamo nulla, se continuiamo a distogliere lo sguardo, questa rivolta che tutti aspettiamo non verrà a salvarci, ma a distruggerci. È già qui, alle nostre porte!
La soluzione nepalese?
Tuttavia, nel settembre 2025, il Nepal ha vissuto una rivolta fulminea, una sollevazione improvvisa che ha destabilizzato un governo ritenuto corrotto e illegittimo. In meno di 48 ore, i giovani nepalesi, connessi e alimentati da una profonda rabbia, hanno rovesciato il potere in carica. Il pretesto immediato è stato il brutale divieto di 26 social network, percepito come un attacco frontale alla libertà di espressione. Ma dietro questo incidente apparentemente insignificante si nascondevano cause molto più profonde, con un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 20%, un esodo massiccio di 2.000 persone al giorno, un’élite politica afflitta dal nepotismo e un’instabilità cronica che si traduceva in un continuo avvicendamento dei governi, proprio come in Francia.
Questa “rivoluzione della Generazione Z”, come è stata definita, ha fatto crollare un sistema rigido, rivelando una generazione nepalese meno apatica di quella europea e pronta a spazzare via tutto ciò che le impediva di respirare. Tuttavia, resta da chiedersi se questa rivolta sia stata l’espressione di un movimento popolare veramente spontaneo o se non sia stata strumentalizzata da forze esterne, come tante altre rivoluzioni colorate.

Ma il parallelo con la Francia è inevitabile. Anche i giovani francesi sono testimoni passivi di una generazione sacrificata, privata di un futuro sotto un regime che continua a favorire una casta dirigente scollegata dalla realtà del Paese. Aggiungete a ciò una repressione poliziesca rafforzata, un sistematico blocco della libertà di parola, e otterrete una società pronta a esplodere. Eppure, il popolo rimane risolutamente inerte.
Come in Nepal, il processo irreversibile è già in atto. Chiudendo tutte le vie d’uscita e non lasciando alcuna alternativa politica credibile a un popolo stanco della dittatura delle élite, la Francia si sta avvicinando pericolosamente a una situazione di rottura. Anche qui la rivolta è ormai inevitabile. E, proprio come in Nepal, la trappola in cui i governanti vogliono rinchiudere la popolazione potrebbe chiudersi contro di loro, e questa volta nessuna repressione potrà soffocare il respiro di un popolo in cerca di libertà.
Il declino della Francia è ormai inevitabile e presto raccoglieremo ciò che abbiamo seminato. Tutto questo non è una fatalità, ma una conseguenza della nostra cecità collettiva. Quando l’ingiustizia è troppo grande, quando l’umiliazione è troppo pesante, la rivolta diventa inevitabile. E, in questo caso, sarà tanto brutale quanto legittima. Il rifiuto e l’inerzia avranno conseguenze drammatiche perché il fallimento economico che stiamo vivendo è solo il preludio a un caos sociale che, inevitabilmente, spazzerà via tutto al suo passaggio.
E nessuno sarà al sicuro!
Phil BROQ.
Fonte: jevousauraisprevenu.blogspot.com
SOSTIENICI TRAMITE BONIFICO:
IBAN: IT19B0306967684510332613282
INTESTATO A: Marco Stella (Toba60)
SWIFT: BCITITMM
CAUSALE: DONAZIONE




