Quello che mangi non è un salmone (quello che stai facendo estinguere, sì)
Viaggio nel cuore degli allevamenti di salmone del nord Europa, dove la carne viene colorata, il maltrattamento animale è regola e gli ecosistemi a rischio. Primo fra tutti, quello del salmone selvaggio, sempre più a rischio estinzione
Vestfirðir, Islanda. «Il salmone che mangi, in realtà, non è arancione».Sorride sotto la barba, Mikael Frödin, mentre lo guardi con la faccia di chi ha appena scoperto che Babbo Natale non esiste. Condividiamo il sedile posteriore di un minivan che sobbalza lungo una strada di asfalto nero tra la neve e il mare. Siamo nella regione del Vestfirðir islandese, all’estremità nord occidentale dell’Islanda, tra l’indice e il medio della mano di terra che sembra allungarsi verso la Groenlandia, quasi a volerla toccare. «Qui a volte arrivano gli orsi polari a nuoto – aveva raccontato poco prima Fridleifur Gudmundsson detto Frid, professione avvocato e attivista, che è seduto sul sedile anteriore -. Ce li ritroviamo esausti e traumatizzati sulla riva e li riportiamo indietro».
Ci troviamo in Islanda, nel Vestfirðir, sul minivan, perché Patagonia, azienda americana produttrice di abbigliamento tecnico, l’archetipo delle benefit corporation, imprese che mettono il loro impatto sociale e ambientale accanto ai profitti , ha prodotto un documentario chiamato Artifishal, sull’allevamento intensivo dei salmoni e sulla scomparsa del pesce selvaggio dalle acque del pianeta. Contestualmente, è stata lanciata anche una petizione che chiede ai governi e ai membri del parlamento di Islanda, Scozia, Irlanda e Norvegia di fermare la devastazione della fauna ittica selvaggia e degli ecosistemi in cui vive causata dagli allevamenti in mare aperto dei salmoni e di impedire la concessione di ogni nuova licenza d’allevamento. Primo firmatario di questa petizione è il North Atlantic Salmon Fund Iceland di cui Frid è portavoce perché proprio l’Islanda, in queste settimane, sta votando per liberalizzare le licenze all’allevamento intensivo di salmoni in mare aperto. E non è un caso che la première assoluta del film abbia luogo proprio in Islanda.
Torniamo al salmone, però. Che non nasce, né cresce arancione perché nelle reti in mare aperto dove viene allevato non si nutre né di gamberi né di krill, come fanno i salmoni selvaggi. No, i salmoni d’allevamento mangiano altro: mangimi animali o di soia ogm direttamente importata dal Brasile al prezzo di conclamate devastazioni ambientali, ormoni, antibiotici, additivi chimici. La loro carne è grigia, fino a pochi giorni dalla macellazione, quando viene colorata artificialmente: con integratori a base di carotene, nel migliore dei casi. Oppure con additivi chimici che fanno aumentare i costi di allevamento del 20%, ma garantiscono un generoso ritorno economico ai produttori: «Se il salmone d’allevamento fosse grigio, tutti comprerebbero salmone selvaggio – spiega Mikael -. In questo modo la gente non li distingue, trova un colore che riconosce e compra il salmone meno caro che trova sul banco, quello di allevamento. Così si spingono fuori dal mercato i produttori di salmone selvaggio». La chiosa è amara: «Noi compriamo e mangiamo l’imitazione di un pesce, mentre il pesce originale scompare. Sarebbe buffo, se non fosse tragico», sbuffa.
«Nessuno sa cosa succede in fondo al mare»
Una piccola imbarcazione a motore ci conduce verso uno di questi
allevamenti in mare aperto, quattro strutture metalliche circolari, del
diametro di poche decine di metri. Accanto a loro, una chiatta,
apparentemente senza nessuno a bordo, si occupa di fornire ai salmoni
cibo e medicinali attraverso un tubo metallico. Il silenzio è irreale.
Nessuno, da qui, potrebbe immaginare quel che ha visto Mikael Frödin,
calandosi in una di queste fish farm con una telecamera, in quella che
diventerà la scena più disturbante di Arifishal: «Non volevo credere ai
miei occhi – racconta -. Mi aspettavo tanti pesci, ma non così
tanti. Saranno stati 80, 90mila in una pozza di 80 metri di profondità,
circa. Giravano in tondo: alcuni erano ciechi, altri devastati dal
pidocchio di mare che gli stacca la pelle a brani, lasciando la
carne viva a contatto con l’acqua circostante, intorbidita dagli
escrementi e dai residui di cibo. Tutti o quasi avevano la coda mozzata,
rosicchiata dagli altri salmoni che nuotavano in quel carnaio». Nel
film, una volta uscito dalla vasca, Mikael sbarra gli occhi e urla:
«Nessuna madre vorrebbe dare questa roba da mangiare ai propri figli».
I numeri sono impressionanti tanto quanto la descrizione di Mikael, che per quelle immagini è stato incriminato ed è oggi sotto processo: «Ogni singola vasca può contenere sino a 200mila salmoni – spiega Frid -, ma 50mila tra loro, muoiono prima di essere macellati, a causa delle malattie, di pidocchi di mare e dell’inquinamento dell’acqua. Non c’è altro allevamento animale che ha analoghi tassi di mortalità. Non solo: i rifiuti prodotti da tre sole gabbie sono pari all’equivalente di liquami prodotti da 120.000 persone. Quelle quattro gabbie circolari, piccole, silenziose e apparentemente insignificanti, producono gli stessi liquami dell’intera città di Reykjavík, la capitale dell’Islanda. Il problema è che lo fanno in una rete, nel bel mezzo di un fiordo, in pieno oceano: «Nei fiordi in cui ci sono gli allevamenti di salmoni stanno scomparendo gamberi e krill che nutrono i salmoni selvaggi e altri pesci, che a loro volta nutrono pesci più grandi, sino ad arrivare ai predatori in cima alla catena alimentare come le orche. Quegli allevamenti sono una minaccia per tutto l’ecosistema dei fiordi», spiega Frid. «Nessuno sa cosa succede in fondo all’oceano -, chiosa Mikael -. Nessuno sa quanto possa fare rumore il silenzio».
Ogni singola vasca può contenere sino a 200mila salmoni, ma 50mila tra loro, muoiono prima di essere macellati, a causa delle malattie, di pidocchi di mare e dell’inquinamento dell’acqua. Non c’è altro allevamento animale che ha analoghi tassi di mortalità. Fridleifur Gudmundsson.
North Atlantic Salmon Fund Iceland
La scomparsa del selvaggio
Non è solo una questione di sicurezza alimentare, né di maltrattamenti animali, né di inquinamento delle acque. È anche – forse soprattutto – una questione di difesa della biodiversità, o per dirla con le parole di Josh “Bones” Murphy, produttore e regista del film, «è questione di chiederci se vogliamo che rimanga qualcosa di selvaggio in natura. O se vogliamo addomesticare ogni singola specie, creando una nuova natura a misura dei bisogni umani». Non è una speculazione filosofica, quella del regista americano: se c’è una specie che fa della biodiversità la sua caratteristica principale è proprio il salmone. Ogni singolo fiordo dell’Islanda ha la sua peculiare qualità di salmone, plasmata da millenni di evoluzione a misura delle correnti, della temperatura dell’acqua, dai salti necessari per nuotare controcorrente sino alla sorgente del fiume. E se c’è un territorio che ha sempre protetto la biodiversità, al punto da essere l’unico Paese d’Europa ad aver bandito la pesca a strascico nei suoi mari, è proprio l’Islanda.
Ecco perché quella del salmone islandese appare essere la madre di tutte le battaglie per la difesa della natura selvaggia: «La vita del salmone è un viaggio avventuroso che ha pochi eguali – spiega Frid – ogni salmone nasce in questi fiumi, scende nei fiordi, entra in mare aperto, raggiunge le coste americane e poi torna indietro, al suo fiordo, al suo fiume, per riprodursi. Ogni fiordo, ogni fiume, ha il suo salmone, col suo Dna unico al mondo, frutto di migliaia di anni di evoluzione». Così non è per il salmone allevato. Le sue uova, tutte le uova delle centinaia di milioni di salmoni norvegesi che vengono allevati ogni anno al mondo, provengono in larga parte dalla stessa azienda, il colosso norvegese Bolaks, dallo stesso fiordo e dalla stessa specie di salmone, un incrocio norvegese-svedese perfetto per essere allevato: grasso, docile, in grado di crescere velocemente: «Semplifichiamo per ragioni di mercato ciò che la natura ha reso complesso per ragioni di sopravvivenza ed evoluzione della specie -, interviene ancora Josh Murphy -. Possiamo pure continuare a farlo, ma è importante esserne consapevoli».
Genetic pollution, lo chiama Frid. Inquinamento genetico. Già, perché gli allevamenti in mare aperti non sono che una rete che circonda i salmoni dalla superficie al fondo del mare. Basta una mareggiata, o un buco causato dall’usura, per farne scappare a centinaia, se non addirittura a migliaia. Una fuga, questa, che per istinto porta i salmoni allevati nei fiordi, e poi nei fiumi, a fecondare o a deporre uova, creando una genia meticcia, del tutto inadeguata a sopravvivere in quel fiordo e in quel fiume. In Islanda, oggi, ci sono circa 500mila salmoni selvaggi. Solo 40 anni fa ce n’erano 1,6 milioni. Ne sono spariti sette ogni dieci in meno di mezzo secolo.
Mikael lo ascolta, sconsolato. Lui i salmoni selvaggi li pesca da una vita, in giro per il mondo – «Ho insegnato la pesca a mosca al principe Carlo», gonfia il petto -, e ha toccato con mano la diminuzione dei pesci che risalgono le correnti, la loro progressiva mutazione nella forma e nel colore. Oggi, nel mondo, ci sono 70 salmoni d’allevamento ogni 100. In un Paese come la Norvegia che insieme alla Scozia il principale allevatore di salmoni al mondo, ci sono 220 milioni di salmoni d’allevamento, in forte aumento, e solo 500 mila salmoni selvaggi, in forte diminuzione: «Non ci sarà più nemmeno un salmone selvaggio in circolazione, se continuiamo così – sussurra amaro Mikael -. Saranno come i polli. Una specie nuova, completamente addomesticata, lontana parente dell’antenato selvaggio che fu». Una commodity a servizio esclusivo dell’uomo. Non è un caso che si parla di coltivazione (farming) di salmoni, e non di allevamento.
In Islanda, oggi, ci sono circa 500mila salmoni selvaggi. Solo 40 anni fa ce n’erano 1,6 milioni. Ne sono spariti sette ogni dieci in meno di mezzo secolo
L’inevitabile evitabile
Nella riproduzione di una casa vichinga che ospita la première del film
non c’è una sedia libera. La gente applaude e si interroga, di fronte ai
pugni nello stomaco di Artifishal, ma la mattina seguente il
taxista che ci accompagna all’aeroporto, interrogato, ammette di essere
favorevole alla liberalizzazione delle licenze: «Porterà lavoro e ci
permetterà di esportare salmone in tutto il mondo», argomenta. È
un Paese, l’Islanda, in cui la crisi finanziaria del 2008 ha lasciato
ferite profondissime, e due soli settori economici, il turismo e la
pesca, a sostenerne il fragile sviluppo. Il problema, al solito, è
conciliare crescita economica e sostenibilità ambientale: «Non è
esattamente così – aveva spiegato Frid la sera prima -. Innanzitutto,
perché non è vero che l’allevamento in mare dei salmoni porta lavoro
alla popolazione: parliamo di un processo quasi interamente
automatizzato, in cui il lavoro umano è pressoché inesistente». Non
solo, ma di export islandese di pesce c’è poco o nulla: Arnarlax, la principale azienda allevatrice di salmoni in Islanda, è controllata al 63,03% dal gigante norvegese Salmar e al 30% da altri investitori norvegesi.
Di fatto, l’unico azionista islandese, ha circa il 3%. Per completare
il quadro, c’è un indotto negativo che coinvolge il turismo: «Se i
salmoni continuano a diminuire, mi toccherà chiudere l’azienda e andare
in città a fare il meccanico, spiega un allevatore di pecore incontrato
sul tragitto, la cui fattoria si affaccia sulla sponda del fiume Pera,
uno dei più ricchi di salmoni dell’Islanda sud occidentale. Fino a
qualche tempo fa, poteva integrare il reddito vendendo le licenze per
pescare nel tratto di fiume che passava dalla sua proprietà. Ora sempre
meno. Tra poco, smetterà di farlo.
Eppure una soluzione ci sarebbe. È un sistema di allevamento cosiddetto “close-contained” a terra, che impiega vasche artificiali separate dal mare, con un ricircolo delle acque generato artificialmente e che, in teoria, potrebbe risolvere un bel po’ di problemi. Quello dell’inquinamento del mare e dell’inquinamento genetico, attraverso la rigida separazione tra gli allevamenti di salmoni e il mare aperto. E pure quello dei costi di trasporto, poiché con questo sistema i salmoni possono essere allevati in prossimità di ciascun mercato di sbocco». Certo, restano numerosi problemi sul tavolo, dall’elevata concentrazione di salmoni nelle vasche, al loro stato di salute, alle quantità di ormoni, agenti chimici e antibiotici impiegati nell’allevamento. Ma per quello servirebbe una regolamentazione più rigida sui mercati di sbocco, primo tra tutti quello europeo. Le prossime elezioni europee dovrebbero essere il momento giusto per parlarne. Chissà se il consumatore, consapevole di ciò che accade sotto il livello del mare, finirà per aprire gli occhi e alzare la voce.
Toba60 sostiene la petizione per la tutela del salmone selvaggio. Per firmare, clicca qui
Fonte: https://www.linkiesta.it