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La Vittoria Dell’Agnello di Brescia e l’Antica Leggenda di Budda che si Sacrifica in Forma di Lepre

E’ un testo esoterico per intenditori e chi entra qua dentro lo è….

..buona lettura!

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La Vittoria Dell’Agnello di Brescia

Il 20 luglio 1826 a Brescia si verificò una sensazionale scoperta archeologica: in una intercapedine tra il lato ovest dell’imponente Capitolium dell’età di Vespasiano (69-79 d.C.) e le pendici del colle Cidneo fu ritrovato un ammasso di bronzi composto da ritratti, decorazioni architettoniche, pettorali di statue equestri e da una superba statua bronzea di Vittoria alata , alta quasi due metri.

Illustrazione 1: La Vittoria Alata di Brescia dopo il restauro nel Capitolium con il nuovo allestimento di Juan Navarro Baldeweg.
Credits: Archivio fotografico Musei di Brescia © Fotostudio Rapuzzi

Brescia, le ali della Vittoria

Questi preziosi materiali si datano tra il I e il III sec. d.C. ed è verosimile che furono nascosti intenzionalmente per preservarli dalla distruzione. La Vittoria, rinvenuta con le ali e le braccia staccate, divenne subito orgoglio e simbolo di Brescia e, una volta compiute le integrazioni uno scudo appoggiato al ginocchio sinistro, un cesello con cui ci scrive sopra e un elmo sotto il piede sinistro , fu esposta nell’allora Museo Patrio, istituito in seguito alla scoperta.

Nel 1834, l’archeologo Giovanni Labus curò il restauro della statua: fece riagganciare le ali tramite i fori e le sporgenze posti sulla schiena e attaccare le braccia originali tramite un’armatura metallica interna. La Vittoria è sempre stata al suo posto nel museo, salvo quando fu messa al sicuro fuori Brescia durante la prima e la seconda guerra mondiale e, alla fine degli anni 40, portata a Roma all’Istituto Centrale del Restauro. Nel 1998 venne trasferita al nuovo museo allestito nel complesso di Santa Giulia.

Dopo vent’anni circa, la Vittoria è stata portata all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, uno dei centri di eccellenza del restauro in Italia e nel mondo, dove è stata sottoposta, sotto la guida di Marco Ciatti e Anna Patera, a indagini diagnostiche e a un intervento di restauro esemplare, che ha previsto anche la sostituzione del dispositivo di sostegno di ali e braccia ottocentesco con uno nuovo, frutto di alta progettazione e tecnologia1.

Secondo i primi studi, venne formulata un’ipotesi su come la statua fosse giunta a Brescia. Secondo tale ipotesi, la statua sarebbe stata trasportata a Roma per volontà di Augusto dopo la morte di Cleopatra nel 29 a.C. e quindi da lui donata direttamente a Brixia in segno di benevolenza politica, forse in occasione del conferimento alla città del titolo di Colonia Augusta.

L’opera, infine, sarebbe stata trasformata in Nike dopo la seconda battaglia di Bedriaco che aveva segnato l’affermazione di Marco Antonio Primo, luogotenente di Vespasiano, su Vitellio. Era stato proprio Vespasiano, dopo la battaglia che gli aveva consentito la salita al trono, a volere il monumentale rifacimento del foro e del tempio capitolino della città, e si era supposto che la rielaborazione della statua da Afrodite a Vittoria era da collocare in questa occasione.

Le statue in bronzo del mondo antico sono abbastanza rare. Il motivo è storico-religioso: sia per le scelte ideologiche fatte quando il Cristianesimo divenne confessione ufficiale dell’Impero, sia in occasione delle numerose guerre, i simboli pagani poco per volta vennero fusi e andò perso così un patrimonio di statuaria che ancora oggi fatichiamo a definire. Ma chissà come, un giorno di tanti secoli fa, qualcuno pensò di salvare dalla distruzione una statua in bronzo nascondendola nella nicchia di un tempio.

È stato scritto così il destino della Vittoria Alata di Brescia, una figura femminile in tunica e mantello, composta di trenta parti fuse (in cera persa indiretta) e saldate tra loro in un’idea di imponenza e delicatezza, forza e morbidezza3. Una statua diventata simbolo di Brescia che, tuttavia trova il modo di giustificare a buon ragione la sua possente valenza di simbolo alato di una vittoria che il mondo cristiano non ha ancora conosciuto se non attraverso il messaggio dell’Apocalisse di Giovanni evangelista con la vittoria dell’Agnello, il corpo di Cristo.

La «bestia di terra» di Brescia

Sul finire del 1969, l’anno in cui mi sono sposato, per ragioni di lavoro venni ad abitare a Brescia, proveniente da Caserta. La sorte decise che io abitassi nelle immediate adiacenze del santuario di Santa Maria dei Miracoli. Giusto nel mezzo di questa chiesa con altre due, la grande basilica dei Santi Nazaro e Celso e quella di San Francesco d’Assisi.

Scoprii subito uno spiccato interesse, come già accennato, per la stupenda architettura rinascimentale del santuario di Santa Maria dei Miracoli, ricco di fantasiose sculture che stuzzicavano la mia disposizione di cultore esoterico.

L’impatto con questa chiesa mi fece sentire motivato, perché avevo l’occasione di poter fare una ricerca su questo insolito mutus liber, così denso di ipotetici arcani alchemici da scoprire. Ma proseguendo in questa direzione, in breve tempo, la mia attenzione si rivolse alla topografia della città di Brescia, quasi a scorgervi un altro grande santuario fra le le linee di strade, fabbricati e altro e fu un tutt’uno a disegnarlo a ricalco.

Mi comparve, alla fine del disegno, un grande agnello accovacciato con due corna e subito la mia mente, (illustr. 2) con un volo pindarico, si dispose alla rilettura dell’Apocalisse di Giovanni dove veniva descritto un una bestia di terra che sembrava tanto somigliargli, di qui successivamente le premesse iniziali sulla Chiesa dei Miracoli e le altre Chiese si sfocarono in me per continuare nel senso appena intrapreso.

Illustrazione – Surrealtà mappale di Brescia. La bestia di terra dell’Apocalisse di Giovanni. 1. prima abitazione dell’autore, 2. attuale abitazione dell’autore.

E poi, senza lasciare questa direzione, l’apparizione della bestia di terra mi fece disporre ad approfondire il tema relativo, per sfogliare il libro dell’Apocalisse:

«Vidi poi salire dalla terra un’altra bestia, che aveva due corna, simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago. Essa esercita tutto il potere della prima bestia in sua presenza e costringe la terra e i suoi abitanti ad adorare la prima bestia, la cui ferita mortale era guarita. Operava grandi prodigi, fino a fare scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini. Per mezzo di questi prodigi, che le era permesso di compiere in presenza della bestia, sedusse gli abitanti della terra dicendo loro di erigere una statua alla bestia che era stata ferita dalla spada ma si era riavuta.

Le fu anche concesso di animare la statua della bestia sicché quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non adorassero la statua della bestia. Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei.» (Ap 13,11-18)

La ferita mortale della prima bestia.

La prova di Giacobbe

La ferita mortale della prima bestia sembra legarsi all’episodio biblico Genesi della prova di Giacobbe, come a intravedere in lui il lato impuro, rappresentato dalle due bestie, di mare e di terra, in evoluzione redentiva sottoposta al giudizio divino.

< Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi.  Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva».  Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca. Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico. > (Genesi 32,23-33)

Fatale avvenimento a Brescia il 18 agosto 1769

Procedendo alla disamina dei segni della terra, com’è stato per quello della bestia di terra di terra dell’illustr. 2, la prova di Giacobbe, appena descritta trova il suo risvolto con un avvenimento storico di Brescia del 18 agosto del 1769:

Ricerca nell’Archivio di Stato di Milano, su pergamene dei secoli XIV-XVI riguardanti la chiesa e il convento di San Francesco d’Assisi in Brescia.

Illustrazione 3: Piano della città di Brescia, disegno di Pietro Pinelli, incisione di Domenico Giuseppe Cagnoni. 1770. (T. Sinistri 1977 n. 85). Il settore in tono chiaro a sud-ovest indica la zona colpita dallo scoppio della polveriera di San Nazaro (punto 1 in rosso), provocato dalla caduta di un fulmine, la notte del 18 agosto del 1769.

«Fatale avvenimento occorso nella notte 18. corrente verso le ore otto: dopo lunghissima siccità caduto un fulmine nel Torrione sopra la porta della città detto di S. Nazaro, dove stavano di pubblica ragione dove stavano diciasette e più mille pesi di polvere, e già accesa, e istando questo dal basso, indi d’ogni lato del Torrione sudetto, atterrò ducento case all’intorno con la morte di trecento Persone, lasciando tutta la città in pianto, in grida e desolazione…». (APSSNC 3/1 f. 100r)5.

Un Elefante che sostiene l’Agnello a Brescia Sud

Illustrazione 4: Surrealtà mappale di Brescia 2 (Sud). L’Elefante bianco che sostiene l’Agnello rappresenta la coscienza riabilitata, l’Immacolata Concezione dei cattolici.

Proseguendo la disamina dei segni della terra, così com’è stato per l’illustr. 1 si ha modo di capire che la bestia di terra è sorretta da un elefante come se fosse un maragià indiano adagiato su un baldacchino.

Illustrazione 5: La Morte guida l’Elefante. Pallino rosso: abitazione dell’autore.

L’illustr. 4 ritrae questo elefante, che qui è bianco, come a volere simboleggiare l’avvento della luce o, in termini pscologici, della coscienza; la memoria diviene cosciente: il bianco, infatti, è contrapposto al nero del primo elefante e rappresenta la luce che illumina le tenebre dell’inconscio. Rimanda, in questo senso, al manifestarsi di capacità di apprendimento memorizzazione e linguaggio. È l’Immacolata Concezione dei cattolici.
Infatti le bestia di terra che rappresenta in noi l’io non vero, sorretto dall’elefante nero, cioè l’incoscienza, aveva per guida la morte, ed io dapprima sono stato portato a disegnarlo nell’illustr. 5, riportata accanto.
Si nota il particolare di un coniglio o una lepre che sorregge il piede della morte: cosa ho cercato di rappresentare?

Se non ci fosse la provvidenza l’uomo preso nel cappio della bestia in lui, la morte non avrebbe ostacoli per farlo perdere inesorabilmente, invece c’è sempre modo di salvarsi grazie alla provvidenza divina.

Abbiamo visto che in realtà, il supposto Agnello emergente dalla mappa di Brescia città, evoluzione della bestia di terra, può benissimo essere interpretato, come il Cristo Gesù, il Salvatore del Mondo, supposto per la sua nascita, il Budda, secondo Rudolf Steiner, che è il discendente di un antico Maraja, appunto.

Ora con la nuova surrealtà presentata con l’illustr. 4, che è di Brescia Est relativa a Rezzato e Botticino, si prospettano nuove cose in relazione all’Agnello Cristo Gesù irradiato dalle forze spirituali di Budda (secondo Rudolf Steiner).

Prima di tutto, iniziando dal limite dell’Agnello, appena accennato su questa nuova surrealtà, vediamo che la guida in groppa alla testa dell’Elefante è la Morte. Inoltre la morte, come già detto, ha modo di avere i suoi piedi adagiati sul dorso di un animale che a me è parso un coniglio, o anche una lepre, come se il procedere delle cose dipendenti dall’Agnello bresciano, attraverso la Morte sia agevolato da questo animale. Questo riferimento è fortemente legato ad un’antica leggenda su Budda riportata da Steiner nei suoi testi. Si tratta della presenza del bodisatva Budda fra gli uomini ai quali donò nutrimento spirituale.

Antica leggenda di Budda che si sacrifica in forma di lepre.

«Queste cose generalmente dice Rudolf Steiner commentando il vangelo di Luca – non sono ancora riconosciute dalla scienza esteriore. Spesso però fiabe infantili e leggende vi alludono. […] L’anima umana ha sempre sentito, nel suo profondo, l’importanza del fatto che prima qualcosa fluisce dall’alto, che poi diventa possesso dell’anima umana, e che da questa irraggia nuovamente nello spazio universale. […] Questa verità sul bodisatva, nei paesi in cui egli visse, si espresse in una strana leggenda:
Un tempo il Budda visse in forma di lepre; il quel tempo tutti gli altri esseri viventi cercavano alimenti; ma ogni alimento era esaurito.

I vegetali, che per la lepre rappresentavano il nutrimento adeguato, non servivano a tutti gli altri che erano carnivori; allora la lepre (che era in realtà Budda) vedendo un bramino, decise di sacrificarsi e di offrirsi come alimento. In quell’istante giunse il dio Sakra che vide il sacrificio della lepre, Nel monte si formò allora una fenditura che accolse in sé la lepre. Poi il dio Sakra prese una tintura e dipinse sulla Luna l’immagine della lepre.  Da allora in poi, sulla Luna si può vedere l’immagine del Budda in forma di lepre. (In Occidente si usa parlare invece di un uomo che si vede sulla Luna).

Ciò è narrato ancora più chiaramente in una leggenda calmucca: nella Luna dimora una lepre che giunse una volta lassù, perché il Budda si sacrificò e lo spirito stesso della Terra disegnò sulla Luna l’immagine della lepre. Così viene espressa l’alta verità del bodisatva che diventò Budda, e del sacrificio del Budda che consiste nell’aver dato all’umanità, come alimento, quello che prima era il proprio contenuto. In tal modo questo contenuto può irraggiarsi ora nel mondo movendo dai cuori degli uomini.».

La leggenda di San Cristoforo

L’immagine dell’illustr. 3 trova anche sostegno nella leggenda di San Cristoforo che porta sulle spalle Gesù Bambino.

San Cristoforo (Licia, … – 250 circa) è un santo venerato dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa. Secondo la tradizione della Chiesa occidentale subì il martirio in Licia sotto Decio nel 250.

Il più antico testo degli Atti di san Cristoforo, in lingua latina, risale al VII secolo; ma è con la narrazione della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine che la storia di san Cristoforo divenne famosa durante il Medioevo.

Secondo la leggenda agiografica orientale, Cristoforo, un omone dall’aspetto animalesco, entrato nell’esercito imperiale, si convertì al cristianesimo e annunciò la sua fede ai commilitoni. Scoperto, venne sottoposto a numerose torture. Due donne, Niceta e Aquilina, che avrebbero dovuto corromperlo, furono invece da lui convertite. Alla fine Cristoforo venne decapitato.

In Occidente prevalse invece un altro aspetto, quello legato al significato etimologico del suo nome: Cristoforo infatti significa, in greco, “(colui che) porta Cristo”. Così la leggenda parla di un cananeo, per alcuni un gigante, che faceva il traghettatore su un fiume. Era un uomo burbero e viveva da solo in un bosco, di cui era padrone. Secondo alcune storie il fiume era in Licia.

Una notte gli si presentò un fanciullo per farsi portare al di là del fiume; Reprobus (questo era il nome dell’uomo prima del battesimo, secondo alcune versioni), anche se grande e robusto, si sarebbe piegato sotto il peso di quell’esile creatura, che sembrava pesare sempre di più ad ogni passo. In alcune versioni sarebbe cresciuta anche la corrente del fiume, che si faceva più vorticosa. Il gigante sembrava essere sopraffatto, ma alla fine, stremato, riuscì a raggiungere l’altra riva. Al meravigliato traghettatore il bambino avrebbe rivelato di essere il Cristo, confessandogli inoltre che aveva portato sulle sue spalle non solo il peso del corpicino del bambino, ma il peso del mondo intero. Dopo aver ricevuto il battesimo, Cristoforo si recò in Licia a predicare e qui subì il martirio.

Questo aspetto di Cristoforo suggerisce che con l’avvento di Cristo l’uomo non è più responsabile del proprio piccolo mondo, ma di tutto il creato. Trasportare un giovane maschio dall’altra parte del bosco poteva essere, anticamente, una qualche forma di iniziazione ai misteri della natura, della foresta, dell’acqua, o iniziarlo alla vita adulta. Da quando però Cristo irrompe nel mondo, tutto cambia profondamente: un bimbo cristiano porta su di sé la responsabilità del mondo intero, anche quello al di là del bosco. “Hai portato il peso del mondo sulle tue spalle”: questa la differenza tra l’uomo del prima e l’uomo del dopo Cristo.

Rudolf Steiner, Il vangelo di Luca, pagg. 62-63. Editrice Antroposofica.

Illustrazione 6: Icona rappresentante San Cristoforo cinocefalo che trasporta il bambino.

In alcuni paesi, tra i quali quelli anglosassoni, esiste la storia di Iron John, o di Eisenhans, come raccontano i fratelli Grimm. Il protagonista della fiaba è un uomo selvatico che viene ripescato nel fondo di uno stagno, dove si trovava chissà da quanto tempo.

Il santo cristiano San Cristoforo viene raffigurato in moltissime icone e affreschi bizantini con le fattezze di Cinocefalo. (illustr. 6) Nella Passio sancti Christophori martyris, un testo presente in varie opere di patristica e che ebbe molta diffusione in epoca medioevale, viene narrata la leggenda del santo, che sarebbe proprio un Cinocefalo convertitosi al Cristianesimo. San Cristoforo Cinocefalo presenta caratteri comuni sia al dio egizio Anubi (san Cristoforo traghetta Gesù Bambino, così come Anubi “traghetta” le anime fra il regno dei vivi a quello dei morti), sia ai molteplici racconti di Cinocefali (talvolta san Cristoforo viene rappresentato come un gigante, attributo condiviso da diverse popolazioni di uomini-cane).

La figura di san Cristoforo, sebbene acquisisca alcuni tratti del mito dei Cinocefali (il gigantismo, l’abbrutimento prima della conversione) ne ribalta completamente lo status morale nella sua santità. Un autore altomedievale (IX secolo d.C.), il monaco benedettino Ratramno di Corbie (Ratramnus) nella Epistola de Cynocephalis afferma che i Cinocefali debbano essere considerati come esseri umani. Questo documento esprime un duplice e più complesso atteggiamento verso i “popoli mostruosi” che si sviluppa nel tempo, che vede al di là dell’ostilità prevalente, anche l’accettazione come parte della creazione di Dio.

La figura di san Cristoforo sarebbe, anche, un retaggio di culti pagani legati al moto astronomico di Sirio, stella appartenente alla costellazione del Cane Maggiore. La festa del santo cade il 25 luglio e il riferimento astronomico riguarderebbe il periodo della “canicola”, quello in cui il sorgere e tramontare di Sirio coincidono con quelli del Sole. In quel periodo cadeva anche la festa di un “santo” cane, san Guinefort di Lione.

San Cristoforo Cinocefalo presenta caratteri comuni al dio egizio Anubi (san Cristoforo traghetta Gesù Bambino, così come Anubi “traghetta” le anime fra il regno dei vivi a quello dei morti). Per gli egizi Anubi è la divinità legata al regno dei morti. Ha il corpo di uomo e la testa di sciacallo, ed è considerato protettore delle necropoli e dei cimiteri, della mummificazione e in generale dell’aldilà. Il suo ruolo è quello di accompagnare nell’aldilà le anime dei defunti, pesarne il cuore e traghettare dunque il defunto dal mondo terreno al cospetto di Osiride.

La vittoria dell’Agnello di Brescia con la venuta del Cavaliere sul cavallo bianco dell’Apocalisse

Nostradamus II-13

« Il corpo senza anima non più essere sacrificio,

Il giorno della morte messo in natività:

Lo Spirito Divino farà l’Anima felice,

Vedendo il Verbo  nella sua esteriorità. »

Il Sole rappresenta lo Spirito Divino e l’Agnello è il Verbo, il Corpo di Cristo, ed è l’Ospedale Civile di Brescia a impersonarlo.

Il Cavaliere dell’Apocalisse 19,11-16

< Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava «Fedele» e «Verace»: egli giudica e combatte con giustizia.
I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all’infuori di lui. È avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è Verbo di Dio. Gli eserciti del cielo lo seguono su cavalli bianchi, vestiti di lino bianco e puro. Dalla bocca gli esce una spada affilata per colpire con essa le genti. Egli le governerà con scettro di ferro e pigerà nel tino il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente. Un nome porta scritto sul mantello e sul femore: Re dei re e Signore dei signori. >

Il Cavaliere ha in mano un emblema, la lettera L maiuscola a rovescio, la Lamed ebraica

Origini di Lamed fenicio (lettera L)

L’ideogramma più antico è il pungolo come un punto interrogativo, da cui proviene il grafema fenicio simile alla nostra L maiuscola in corsivo, e la lettera Lamed dell’ebraico quadrato.

Illustrazione 8: Lamed’
‫ל‬ ebraica

Il Pungolo

Con il pungolo, il conduttore di buoi toccava l’animale per spronarlo a camminare. Si tratta del potere di controllare gli istinti, frenandoli o spronandoli, stimolandone la forza per utilizzarla ai propri fini. Questi istinti, possono essere intesi come forze primordiali, energia non ancora canalizzata.

È uno strumento che si collega al pastorale del vescovo, così allo scettro del re. In pratica è il bastone di Comando, ed è prerogativa di tutti coloro che guidano verso l’avvenire (maestri). È la bacchetta magica che simboleggia la volontà magista. Il termine maestro, in ebraico di dice Alluf, parola formata dalle lettere Alef-lamed-Qof. Alef e lamed sono il bue e il pungolo: da sole formano la parola divine El, ma “el” è anche preposizione che indica la direzione “verso”. Lette al contrario, Lamed e Alefa, formano la parola “Io” che significa “no, non” e possiamo interpretarlo come il voltare le spalle al divenire. Oppure il movimento verso Alef, verso l’origine, il nulla. il non essere. E in effetti nel linguaggio biblico “aol” è spesso anche negazione.

In sintesi, possiamo affermare l’equazione secondo cui El sta a Lo come l’essere sta al Non essere )El : Lo = Non essere).

La Torre

La lamed è la più alta delle lettere dell’alfabeto ebraico, e nello Zohar è chiamata “Torre che vola in aria”. essa è l’origine di ogni aspirazione a liberarsi dalla grossonalità e dalla pesantezza per innalzarsi nelle sfere celesti.

Al negativo ciò può limitarsi ad un idealismo romantico. Viziato da false pretese emotive; al positivo invece diventa un’ascesi spirituale, compiuta non in modo privato e segreto, ma tramite un mutato atteggiamento nel campo dei rapporti interpersonali.

La Lamed è all’origine di ogni forza ascensionale che ci porta a superare le leggi di gravità e a scoprire la vastità della libertà dello spirito.

Lamed è tutto il contrario di ciò che trattiene, prende, attacca, possiede: è l’opposto della sete e del desiderio di possesso che possono rendere l’individuo egoista e aggressivo.

Rappresenta, invece, l’espansione, che è l’immagine simbolica del braccio teso che abbraccia e espande il proprio campo d’azione e il proprio orizzonte, o meglio ancora dell’ala dell’uccello che si dispiega per prendere il volo, partire, evadere, elevarsi in cielo.

Ancora, lamed prende sotto la propria protettiva, distende, allarga, collega, riunisce, protegge. Come agente di collegamento permette a tutti gli elementi di organizzarsi, di mettersi in movimento e quindi di espandersi.

La Scala di Giacobbe

La forma della Lamed è stata paragonata alla Scala di giacobbe (Sullam), la cui base tocca la terra e la cui cima arriva al cielo, e lungo la quale gli angeli salgono e scendono.

Si noterà che il Re Marte dell’illustr. 4 alla base poggia sulla strada e così pure la sua spina dorsale poggia sulla seconda strada quasi verticale. Questo per dar valore al concetto appena enunciato della Scala Di Giacobbe.

Tutto ciò è un bellissimo simbolo di unificazione degli opposti, dell’Alto e del Basso.

Non a caso, la forma della Lamed ingloba un semicerchio e una retta, il moto rettilineo e quello circolare. Il modo più esatto di rappresentarsela in tre dimensioni è dunque quello di una scala a chiocciola, ovvero di una spirale, che si innalza verso il cielo.

La Lamed non esprime solo la Potenza dell’anima di ascendere, ma anche la capacità di discendere, intese come aspirazione ed ispirazione.

Il serpente

La lettera Lamed ricorda l’immagine del serpente che si solleva verso l’alto. La tradizione ebraica afferma, che prima del peccato dell’Adam, il serpente camminava eretto come gli esseri umani ed era il re degli animali. Solo dopo il peccato, il Creatore decretò al serpente che «tu camminerai, striscerai, sul tuo ventre».

Ciò implica che il serpente non strisciasse affatto, perciò nell’ebraismo si pensa che prima camminasse eretto e fosse, si dice il re degli animali.

Nella lettura numerica, vi è l’equivalenza numerica tra il termine Maschiàch (Messia) e nachàsh, (serpente), entrambi con valore ghematrico 358.

Questa equivalenza, dicono i rabbini, dimostra che la redenzione operata dal Messia rimetterà tutti in piedi, tutti risorgeranno.

Kaf + Vau + Yod

Rudolf Steiner

Guardando la lettera Lamed da vicino, si possono riconoscere in essa una Kaf in basso, e una Vau al centro e una Jod sopra. Si potrebbe semplicemente pensarla come un razzo a tre stadi: la parte circolare in basso è la prima spinta, che la porta in orbita intorno alla terra. Poi viene la Vau, il viaggio ascensionale verso gli spazi esterni. Infine anche questo vettore viene superato, e rimane solo la navicella trasportante la consapevolezza, la Yod, indirizzata alla scoperta dell’infinito. Dal punto di vista della Consapevolezza divina, le tre lettere componenti della Lamed rappresentano i tre livelle della realtà: Mondi, Anime e Divinità.

Insegnare e Imparare

Lamed vuol dire sia insegnare (lelamed) che imparare (lilmud); insegnare e imparare sono praticamente la stessa identica cosa.

Con la lettera Lamed inizia la parola lev, cuore, che è sede della coscienza che guida i rapporti con tutte le realtà create.

Primariamente, lev presiede ai rapporti con gli esseri umani, cui vite, dicono i maestri rabbini, devono imparare a fondersi, poiché è proprio attraverso le relazioni, evolvendo il nostro relazionarci, che raggiunge il nostro comportamento sapiente. Senza il perfezionamento delle relazioni, non si raggiunge la maturazione spirituale.

L’insegnamento che viene dal cuore arricchisce la saggezza del proprio cuore, così che ogni interazione, a sua volta, può accrescere tale saggezza.

I rapporti possono essere sintetizzati nelle azioni di parlare e ascoltare. Ascoltare è il comandamento per eccellenza di Israele: Scemà Israel, Ascolta Israele. Chi non è in grado di ascoltare, non potrà mai sapere. Ascoltare è accogliere totalmente l’altro se stesso.

Parlare invece significa consegnarci all’altro, è la consegna di sé per diventare l’altro, fuori da sé stesso.

Consegnarci e accogliere sono le due azioni che manifestano l’Amore., che è unione e totalità. Si dice dunque che l’amore genera amore perché il consegnarci implica essere accolti, e accettare l’altro in sé. In questo modo si diviene un tutt’uno.

tale è anche l’Amore nella realtà nuziale, erotica, che diventa l’esperienza della reciprocità di un’azione. Da qui nasce l’idea dell’amore inteso come donazione reciproca, che nasce dall’accoglienza reciproca, che nasce dall’ascolto reciproco.

Il Sole e la Luna, i due “Debonnari” nostradamici nell’Apocalisse

Cominciamo daccapo per vedere in un’altra luce l’Agnello che siede sul dorso di un elefante (illustr. 2), la cui guida è il Cavaliere (illustr. 6).

È possibile intravedere l’agnello e l’elefante in due creature contemplate nelle Centurie di Nostradamus in cui si parla di due “debonnari“.

N. III-5

« Durante la lunga mancanza di due grandi Luminari,

Che sopraggiungerà entro Aprile e marzo,

O qual rarità! Ma i due grandi debonnari,

Per terra e mare soccorreranno tutte le parti.»

Nostradamus, definisce bene i due luminari, che sono il Sole e la Luna, cioè con il termine “debonnari“, la cui parola deriva dall’inglese debonair e che significa affabile, cortese.

Vediamo così che il Sole, coadiuvato dalla Luna, illuminando l’Agnello, che poco prima era la bestia di terra, si rigenera, rinasce ad una nuova vita, e con essa per l’elefante che la sorregge, ovvero la coscienza dell’uomo, è primavera imbiancandosi per apparire come immacolata, senza peccato. In alchimia è la fine dell’opera al nero, la Nigredo e l’inizio dell’opera al bianco, l’Albedo.

E venne il giorno della vittoria di « un esercito di immortali » a Brescia il 13 dicembre 1438

Illustrazione 9: Monumento ai Santi Faustino e Giovita (II secolo d.C.), eretto nel XVI secolo nel punto in cui, secondo la tradizione, sarebbero apparsi a dar man forte ai Bresciani il 13 dicembre 1438, rigettando al nemico con le proprie mani le palle di cannone lanciate contro la città e mettendo in fuga gli assedianti.

Via Brigida Avogadro, la strada dove oggi abito, una strada a tornanti che porta al Castello, non rientra fra gli itinerari turistici anche perché è aperta al traffico automobilistico ma vale la pena raggiungerla per accostarsi all’origine di alcune tradizioni e a figure leggendarie della storia di Brescia, legate a uno dei suoi momenti più drammatici: l’assedio delle truppe di Niccolò Piccinino nel 1438.

Circa a metà del tratto di strada che da piazzale Arnaldo conduce al primo tornante si trova il monumento ai Santi Faustino e Giovita (II secolo d.C.) (illustr. 9), eretto nel XVI secolo nel punto in cui, secondo la tradizione, sarebbero apparsi a dar man forte ai Bresciani sul Roverotto, il settore nord-est dell’antica cinta muraria, il 13 dicembre 1438, rigettando al nemico con le proprie mani le palle di cannone lanciate contro la città e mettendo in fuga gli assedianti.

I due santi sono vestiti da cavalieri e al centro delle due figure c’è un buco a forma di palla di cannone. Questa loro rappresentazione, differente dalle precedenti in abiti sacerdotali e diaconali, li consacra santi guerrieri, pronti a difendere e salvare la città. L’epigrafe inferiore fa riferimento alla peculiarità della loro apparizione durante la battaglia finale dei Bresciani contro Niccolò Piccinino: solo l’esercito assediante li avrebbe visti.

Secondo la tradizione, sarebbe stato decisivo l’intervento di un «esercito d’immortali», guidato dai santi Faustino e Giovita, nel fermare e respingere le truppe di Niccolò Piccinino, dopo il loro ingresso in città, il 13 dicembre 1438. Questa notizia sarebbe stata forse diffusa dai Milanesi per giustificarsi della cocente sconfitta subìta e si narra anche che Piccinino avrebbe esclamato: «Sono solito combattere contro i fanti, ma non contro i santi». In realtà pare che la leggenda nasca subito dopo la battaglia, coniugando fede religiosa e orgoglio municipale. Da allora Faustino e Giovita sono i patroni di Brescia, festeggiati il 15 febbraio tutti gli anni a venire da quel giorno.

Oggi, mentre termino di scrivere questo breve saggio, si scopre che sulla storia via Brigida Avogadro della famosa battaglia, quasi leggendaria se legata all’apparizione dei due santi Faustino e Giovita di un « esercito d’immortali », compare idealmente la straordinaria figura del Cavaliere «Fedele» e «Verace» dell’Apocalisse di Giovanni (illustr. 7) a sgominare la morte e farla dissovere (illustr. 5).

Gaetano Barbella (Staff Toba60)

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