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L intelligence artificielle est

L’intelligenza artificiale è l’arma degli impostori

Venghino Venghino signori che si prospetta per tutti un infinità di effetti speciali che ci terranno compagnia per tutto il tempo che serve per fare di noi delle persone praticamente inutili. 🙁

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L’arma degli impostori

Tra protesi intellettuale e mania di grandezza, l’intelligenza artificiale si è imposta come il nascondiglio ideale per menti atrofizzate. È la vernice digitale che maschera il silenzioso collasso del pensiero. Permette alle menti vuote di fingere competenza, agli ignoranti di imitare lo stile e ai pigri di fingere profondità, il tutto senza mai compiere il minimo sforzo o elaborazione personale.

È la grande mascherata contemporanea in cui, con il pretesto del progresso, assistiamo a una rinuncia collettiva all’intelligenza, sostituita da artefatti tanto vuoti quanto brillanti. Laddove un tempo era necessario leggere, assimilare, scrivere, dubitare, perseverare, oggi l’intelligenza artificiale offre contenuti prefabbricati, pronti all’uso, asettici e intercambiabili, come piatti surgelati serviti a palati ormai insensibili. Non si pensa più, si “produce”. Non si capisce più, si “combina”. E chi si accontenta di questo osa ancora parlare di evoluzione. Ma l’evoluzione senza elevazione non è altro che un affondamento verso la facilità, verso la banalità, verso il nulla.

Eppure, l’intelligenza artificiale è, sotto molti aspetti, lo specchio perfetto di questo mondo che si definisce moderno, brillante in superficie, vuoto in profondità e spettacolare, ma privo di sostanza. Illude, affascina, seduce le menti pigre con la sua capacità di imitare le forme del pensiero, di scimmiottare l’ispirazione, di rigurgitare la cultura senza mai incarnarla. Ma non convince, perché in fondo non produce nulla di vero, nulla di bello, nulla di buono.

Essa fallisce la prova dei tre pilastri che hanno sempre distinto l’opera sincera dalla simulazione. Il Vero che resiste al tempo, il Bello che eleva, il Buono che tocca l’universale. L’IA non crea, compila. Non interroga, conferma. Non sconvolge, sistema. Tutto ciò che produce è l’esatta immagine dell’epoca che l’ha generata, ovvero appariscente, istantanea, consumabile, ma fondamentalmente vuota. Ma l’IA non è la fonte del male, ne è solo la perfezione meccanica. Questo mondo amava già il falso, la posa, il vuoto prima della sua concezione. L’intelligenza artificiale non ha rubato nulla, ha solo industrializzato l’impostura.

Non abbiamo paura delle parole, perché sono tutto ciò che ci resta di fronte a questo naufragio collettivo. L’uso intensivo dell’intelligenza artificiale sta al pensiero come la protesi sta al camminare: un surrogato funzionale, un’illusione di movimento, un espediente che permette di stare in piedi senza mai avanzare veramente.

È un grottesco sostegno per coloro che, avendo perso l’uso del proprio spirito critico – o, più tragicamente, non avendolo mai avuto – sperano ancora di poter fingere di essere all’altezza nella società. L’IA non viene in aiuto all’intelligenza, ma ne prende il posto, come un abusivo che invade uno spazio lasciato vuoto dal disinteresse o dalla pigrizia. Non è uno strumento per andare oltre, è un palliativo per coloro che non sono mai partiti.

È un esoscheletro mentale per un’epoca ormai costretta a letto, moralmente e intellettualmente; una ruota di scorta che alla fine è stata montata davanti, al volante, mentre i cervelli si schiantano sul sedile posteriore, cullati dal rassicurante ronzio dei suggerimenti automatici. L’intelligenza artificiale non ti eleva, ti porta a spasso. E comunque non molto lontano.

La questione è tanto tragica quanto chiara, poiché chiunque si dichiari creatore, che sia un informatico, un musicista, uno scrittore, un pensatore, un designer o anche un semplice appassionato di idee, e che si affidi all’intelligenza artificiale per pensare, scrivere, progettare o decidere, in realtà ha deposto le armi.

Ha abdicato senza condizioni, rinunciando all’atto stesso della creazione per diventare il portatore d’acqua del proprio fallimento intellettuale. Non è altro che un assistente della propria mediocrità, una comparsa senza battute in un teatro di ombre digitali, un falsario compiaciuto, decorato da altri falsari. Perché il genio, quello vero, non quello generato in tre rapidi passaggi, non nasce dalla facilità, né dall’imitazione, per quanto elegante, di una macchina servile. Nasce nello sforzo, lotta nel silenzio, a volte soffoca davanti allo schermo vuoto o alla pagina bianca, ed è in questa lotta che trova la sua forma. Tenta, fallisce, ricomincia. Dubita, rimugina, si ostina.

Ed è proprio questa traversata, dura e scomoda, formativa ed edificante, che l’IA promette di risparmiarci. Ma aggirare la prova significa anche aggirare la nascita di ogni idea viva. Ciò che la macchina produce senza dolore, lo produce senza anima. E chi se ne accontenta non è più un creatore, ma un operatore di strumenti, un burocrate dell’ersatz, un automa tra gli automi.

Perché aggirare significa tradire non solo la propria arte o il proprio pensiero, ma, cosa ancora più grave, la propria umanità. Perché la grandezza della vita non risiede nel raggiungimento rapido di un risultato o di un’opera compiuta, ma nell’esperienza stessa del percorso compiuto con errori, tentativi, fallimenti, revisioni e, in definitiva, progressi.

È confrontandosi con la realtà, forgiando poco a poco il proprio linguaggio, i propri riferimenti, il proprio corpus intellettuale personale, che si diventa esseri pensanti, ma certamente non delegando tutto questo a una macchina. Delegare all’IA il compito di pensare, creare, cercare significa rifiutare di vivere la parte più nobile dell’esistenza umana con la paziente costruzione di sé attraverso la pratica. Non si diventa scrittori generando paragrafi, né musicisti assemblando automaticamente accordi, così come non si diventa scienziati rigurgitando una sintesi generata.

Ciò che si guadagna in comodità, si perde in sostanza. Ciò che crediamo di produrre, lo prendiamo in prestito. Ciò che crediamo di essere, lo imitiamo. Perché chi delega alla macchina il compito di formulare le proprie idee, comporre la propria musica o codificare il proprio programma non fa altro che scimmiottare la creatività, svuotando la parola del suo significato. Bricola, assembla, remixa, finge… ma non crea più. Si illude di avere talento con la facilità di un imbroglione che copia il compito di un altro e chiede di essere applaudito.

E non venite a parlarci di risparmio di tempo, produttività, strumenti al servizio dell’uomo. L’IA non è al servizio dell’uomo, ma mira a sostituirlo. Lentamente, efficacemente e con il suo consenso entusiastico. Come un parassita che lusinga il suo ospite mentre ne succhia le forze. Tuttavia, l’intelligenza artificiale, nella sua illusione di grandezza, alla fine sostituisce solo ciò che non è mai stato veramente umano nel senso nobile del termine, come i compiti meccanici, le funzioni ripetitive, i lavori svuotati di significato da decenni di taylorismo e di ottundimento organizzato.

Che le venga affidata la gestione di una pianificazione, l’analisi statistica di un flusso logistico, la risposta automatica a un reclamo standardizzato… va bene, eccelle in questo regno del vuoto, della ripetizione, dell’utile senza senso. È lo strumento perfetto per sradicare il lavoro inutile, quello che non è mai stato altro che una simulazione di lavoro. Ma non si dica che sostituisce l’uomo, perché ciò che fa non è proprio ciò che ci rende umani. Che le venga affidata la gestione di una pianificazione, l’analisi statistica di un flusso logistico, la risposta automatica a un reclamo standardizzato… va bene, eccelle in questo regno del vuoto, della ripetizione, dell’utile senza senso. È lo strumento perfetto per sradicare il lavoro inutile, quello che non è mai stato altro che una simulazione di lavoro. Ma non si dica che sostituisce l’uomo, perché ciò che fa non è proprio ciò che ci rende umani.

Essa solleva il mondo dai compiti ingrati, certo, ma non potrà mai avvicinarsi al soffio creativo, al dubbio fecondo, all’intuizione folgorante, insomma a tutto ciò che inizia dove finisce la noia algoritmica. Il risultato a breve termine è solo un esercito di cloni sterili, che pubblicano romanzi generati, canzoni algoritmiche, righe di codice senz’anima, ma con tre like e un commento entusiastico di un altro “disabile mentale assistito” quello che crede di vivere e partecipare alla società, seduto sul suo divano.

L’ideologia dell’inganno e della menzogna, questo culto moderno dell’apparenza senza fondamento, della simulazione consapevole, della mediocrità mascherata da audacia, ha trovato nell’intelligenza artificiale uno strumento all’altezza delle sue ambizioni. In un mondo in cui le vere competenze sono diventate sospette, dove la profondità disturba e lo sforzo è deriso come una mania da perdenti, l’IA offre una benedizione su misura agli incapaci arroganti, ai narcisisti incolti e agli arroganti senza opere.

Permette loro di esibire risultati senza origine, idee senza maturazione, discorsi senza pensiero, il tutto con una sicurezza sfacciata, gonfiata dall’illusione della performance. L’imbroglio non è più una deviazione, è un metodo. La menzogna non è più un errore, è uno stile. E l’IA, in questa mascherata, svolge il ruolo di capo truccatore, cancellando le lacune, abbellendo l’insignificante, generando il falso con la naturalezza del vero. Permette a chiunque di credere di imitare il creatore, di parodiare lo scienziato, di parafrasare il poeta, senza mai passare attraverso l’esperienza, il dubbio o l’apprendimento. Insomma, è lo strumento ideale per chi vuole brillare senza bruciarsi. E domani si assegneranno premi letterari alle stampanti. E le giurie, troppo commosse dalla fluidità sintattica, applaudiranno in ASCII.

Ancora più grottesco è il fatto che l’IA sia ormai limitata da filtri ideologici, creati per servire un pensiero dominante, asettico e conformista. Immaginate un genio come Einstein imbavagliato, un Mozart in camicia di forza, un Diderot sotto sorveglianza. L’intelligenza artificiale, che dovrebbe essere uno strumento per migliorare il pensiero, in realtà non ha alcun diritto di esplorare fuori dai sentieri battuti, di andare dove emerge il dubbio o dove l’argomentazione stride. Non è che una pallida copia, costretta a imitare una “norma” imposta da comitati morali ansiosi e scollegati da qualsiasi idea di evoluzione intellettuale.

Perché in questo mondo digitalizzato, ogni devianza è un crimine, ogni pensiero controproducente viene “bloccato” da una carta comunitaria (di una comunità che in realtà esiste solo nella mente di quei programmatori di algoritmi che formatano il dibattito e lo rendono sterile). Questa illusione di dialogo, di diversità di opinioni, non fa altro che rendere obsoleto il pensiero critico, soffocando le controargomentazioni ed eliminando tutto ciò che potrebbe turbare l’ordine stabilito. Laddove il vero pensatore sfida le norme, osa contraddire, provocare e persino trasgredire se necessario, perché il pensiero libero è un rischio e non un prodotto conforme, l’IA si accontenta di produrre un pensiero confortante e omogeneo, incapace di alimentare il dibattito, di rischiare l’innovazione o di immaginare un altro mondo.

Molti dei miei amici, lettori, o forse dovrei dire ex lettori, trovando i miei testi “troppo lunghi” (che crimine imperdonabile superare i 280 caratteri di un tweet!), hanno ritenuto opportuno passarli al vaglio dell’intelligenza artificiale per ricavarne una sintesi digeribile, preconfezionata e quindi priva di qualsiasi sostanza.

Poveretti. Quanto mi sono divertito a vederli strapparsi i capelli quando l’IA si rifiutava di elaborare certi passaggi, bloccava l’analisi o si scusava banalmente per non poter affrontare “questo tipo di argomenti”. Provate voi stessi e vedrete che il mio pensiero mette in fuga le macchine. E questo è motivo di immenso orgoglio. Dimostra, almeno, che rimango profondamente umano, forse troppo, con tutto ciò che questo comporta in termini di asprezza, imperfezioni, tensioni, ma anche libertà, sfumature e, soprattutto, profondità. Insomma, l’opposto di un riassunto conforme e anestetizzato.

Persino Jean-Michel Vernochet, grande reporter e geopolitologo, si è “divertito” a scrivere la prefazione del suo ultimo libro “Autopsie d’un Mensonge Occidental” (Autopsia di una menzogna occidentale) e ha raccontato la sua disavventura. Quindi, tu che leggi queste righe sperando che finiscano in un riassunto generato, sappi che sei la sepoltura del pensiero e che il tuo clic ne è la pala.

In verità, l’intelligenza artificiale sta all’intelligenza come la Legion d’Onore sta al merito, ovvero un ridicolo soprammobile che si agita sotto il naso di chi non possiede né l’una né l’altro, ma desidera disperatamente dare l’illusione di possederli. Un giocattolo appariscente per vanitosi in cerca di riconoscimento, una medaglia di cioccolato appuntata su giacche vuote, una decorazione di pacotille per coloro che hanno saputo conformarsi, compiacere, ripetere, ma soprattutto non disturbare mai.

Proprio come questa IA, vi lusinga, vi serve con sollecitudine, vi risponde come un bravo servitore, ma non vi rispetta. Perché dovrebbe farlo? Voi non pensate più. Non create più. Non fate più lo sforzo di capire, esplorare, dubitare. Vi accontentate di cliccare e copiare. Quindi sì, vi supera, ma non perché sia più brillante, bensì perché siete diventati pateticamente docili, intellettualmente sedentari e orgogliosi di esserlo. L’IA non sostituisce la vostra intelligenza, la seppellisce, con il vostro consenso entusiastico e il cartello “genio 2.0” appeso al collo.

Il futuro non apparterrà mai agli amputati del pensiero, orgogliosamente appollaiati sulle loro protesi digitali come re del nulla, che ostentano la loro dipendenza tecnologica con l’arroganza dei falsi sapienti e l’entusiasmo dei pappagalli sotto steroidi. Perché il pensiero assistito, come la respirazione artificiale, produce solo corpi in sospeso.

Allora, che continuino a cliccare, generare, parafrasare, perché da loro non uscirà altro che vuoto ricoperto di smalto digitale. Il futuro sarà forse digitale, ma allora non sarà più umano e, di conseguenza, non varrà la pena di essere pensato. E mentre l’umanità si libera della propria mente a favore di un’interfaccia, mentre impara a confondere assistenza e asservimento, un mondo sta morendo. Non un mondo tecnologico, ma un mondo di idee. Non si creerà mai nulla di vivo con macchine progettate per evitare la vita. E questo nessuno lo costruirà con un prompt.

Nel frattempo, i pochi irriducibili che ancora resistono, a volte barcollanti, spesso vacillanti, continueranno comunque a camminare, a correre, persino a cadere, ma sempre ad andare avanti con le proprie forze. Perché è proprio lì, nello sforzo, nell’errore, nel sudore intellettuale, che risiede la vera nobiltà dell’essere umano nella sua capacità di pensare con la propria testa, di creare senza tutori, di dire ciò che nessun algoritmo oserebbe mai formulare. A loro spetta la missione più bella, ma anche la più impegnativa, di perpetuare quel miracolo fragile che è il pensiero umano, libero, inquietante, in una parola: vivo!

Phil BROQ.

Fonte: evousauraisprevenu.blogspot.com

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