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Dalla propaganda di stato al dissenso basato sugli algoritmi

Informazione e controinformazione stanno diventando sempre più la faccia della stessa medaglia, le cose da un po’ di tempo si stanno complicando oltre misura e siamo arrivati al punto in cui non è importante la verità o la falsità delle informazioni, in quanto per una sempre maggiore quantità di persone la sola cosa che conta è consumare le notizie li dove il suo contenuto è considerato un inutile perdita di tempo 🙁

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Dalla propaganda di stato al dissenso basato sugli algoritmi

L’informazione, per definizione, è un fenomeno complesso e dinamico il cui scopo è quello di illuminare il pubblico, di ampliare la sua comprensione degli eventi, di offrirgli una serie di prospettive in modo che possa formarsi un’opinione basata su fatti diversi e variegati. Non si limita a riportare gli eventi, ma cerca anche di contestualizzarli, di esplorarne le cause e le conseguenze. Un’informazione veramente indipendente, rigorosa e diversificata fornisce alle persone un quadro di riferimento per interrogare la realtà, navigare nella complessità del mondo moderno ed esercitare il proprio giudizio in modo informato.

La propaganda, invece, è la manipolazione deliberata delle informazioni per plasmare le opinioni e il comportamento di un gruppo target. Si basa sulla selezione distorta dei fatti, sulla loro presentazione da una prospettiva unilaterale e sull’evitamento sistematico di qualsiasi contraddizione. Lo scopo non è alimentare il pensiero, ma assoggettare gli individui a una visione ideologica, creare un consenso artificiale e mantenere una forma di controllo sulle masse. Mentre l’informazione cerca di aprire la mente, la propaganda cerca di chiuderla. In questo contesto, i cosiddetti siti di “reinformazione” si propongono come un’alternativa a questi due estremi. Ma cosa sono in realtà?

Da una camicia di forza all’altra, gli individui, lungi dall’emanciparsi, si trovano intrappolati in una bolla che, sebbene possa sembrare opposta a quella dei media tradizionali, è comunque una trappola. In assenza di una reale pluralità, queste piattaforme, lungi dal fornire una comprensione più ampia del mondo, finiscono per riprodurre lo stesso confinamento, la stessa uniformità di opinioni, la stessa frammentazione delle informazioni. Il cosiddetto dissenso diventa una nuova forma di propaganda, altrettanto riduttiva, polarizzante e priva di prospettiva. In assenza di un vero dibattito, questi spazi contribuiscono a rafforzare le mura della bolla, un recinto ancora più insidioso, perché viene venduto sotto la maschera della “rivelazione” e non offre mai un vero terreno per il pensiero critico, il dubbio costruttivo o la diversità di idee.

Ma la cosa più inquietante di questi siti autoproclamati “dissidenti” non è tanto la loro pretesa di svegliare le masse, quanto la loro insidiosa capacità di riaddormentarle – meglio ancora, di cullarle in illusioni formattate in uno stampo solo leggermente meno grasso di quello dei giornali sovvenzionati che sputano fuori con il gusto di un alcolizzato pentito diventato crociato della temperanza. E dietro la loro aria di resistenza digitale, in realtà non sono altro che cloni ringhiosi dei mass media, con l’aggiunta di una patina di marginalità e di minor pluralismo. La patina è diversa, naturalmente, perché mentre i canali ufficiali parlano il linguaggio clinico della vuota neutralità, i siti di “reinformazione” urlano le loro certezze in un sapere isterico, convinti che l’indignazione sia una prova. I loro titoli sono spesso un’illazione di mercato, come slogan da fiera, sempre scandalizzati e sempre definitivi. Il dubbio, fondamento stesso del pensiero critico, viene bandito come un eretico in una messa inquisitoria.

Il pluralismo che rivendicano è un travestimento grottesco perché è una camera d’eco in cui risuona una sola voce, quella della loro fede. Non diffondono informazioni, le manipolano vagliandole attraverso il loro catechismo. Per di più, le loro fonti sono molto spesso le stesse che pretendono di denunciare, cioè AFP, Reuters, Bloomberg e talvolta anche pubblicazioni scientifiche che capiscono come un astrologo che decifra un testo di termodinamica. E i loro lettori, alimentati a forza con contenuti clonati, riciclati e martellati, finiscono per confondere il radicalismo con la lucidità, l’opposizione con la verità.

La tragedia è che tutto questo viene fatto sotto la maschera dell’emancipazione. Si parla di aprire gli occhi, per poi coprirli con una benda di nuovo colore. Gli strumenti sono moderni, le piattaforme appariscenti, ma l’ambizione intellettuale rimane a filo con i bassifondi, con una logica di clan, di fedeltà cieca, di sostegno senza riserve. E guai a chi mette in discussione, a chi dubita, a chi osa suggerire che possa esistere un mondo al di fuori della narrazione concordata, perché sarà prontamente espulso, bollato come collaboratore, oppositore controllato o addirittura ingenuo.

E nel frattempo la gente chiede a gran voce l’ecu. Un pollice blu qui, una donazione mensile là, come se la rivolta dovesse essere acquistata individualmente, come una scatola di internet. Ma tutto ciò che si compra è l’illusione della libertà, della comprensione, della resistenza. Questa dissidenza di cartapesta, questi ribelli da poltrona, questi editorialisti che fanno jogging davanti alle loro webcam, non liberano nessuno. Arruolano, irreggimentano e confinano. In un mondo in cui tutti mentono, hanno scelto di gridare più forte, ma non necessariamente meglio.

Anche in questo caso, la verità dei fatti sembra troppo complessa. L’analisi rigorosa è chiaramente troppo lunga, proprio come i miei testi, che chi è abituato ai 240 caratteri di Twitter/X non riesce a digerire. Per loro è meglio avere un titolo che colpisca, un video “breve”, l’indignazione preferibilmente servita calda e una narrazione che possa essere ingoiata per intero. Dopo tutto, l’obiettivo non è suscitare, ma catturare l’attenzione, fidelizzare e addomesticare. Ma una gabbia è sempre una gabbia, anche se è dipinta con i colori della “libertà”.

Questo quadro sarebbe incompleto senza menzionare la lotta latente, quasi pietosa, che si svolge dietro le quinte. Perché oltre a ciò, questi siti cosiddetti di “reinformazione” sono tutti gelosi l’uno dell’altro con la ferocia dei gatti di strada che si contendono un misero topo. Ognuno ostenta la sua presunta superiorità, il suo angolo più acuto, la sua denuncia più tagliente, senza mai unirsi per offrire qualcosa di diverso da una fitta nebbia di osservazioni da biscotto. Mai un briciolo di luce, di bellezza o di reale visione di un mondo possibile (a parte TVADP, Geopolintel e GPTV, secondo me…), solo l’eco amara di un meccanismo implacabile, quello dei globalisti che dicono di combattere.

Ogni pagina diventa un ring dove si scambiano commenti sempre più aggressivi, invettive che degenerano in pugilato verbale. È un paradosso crudele, e le persone che sono venute qui in cerca di un luogo in cui esprimersi, di uno spazio di riflessione, si trovano intrappolate in un’arena in cui il dialogo è una finzione, e l’incontro una guerra. Questi Tchat non servono a unire le persone, ma a dividere ulteriormente un pubblico che, in fondo, condivide frustrazioni comuni, ma è crudelmente privo di un progetto comune, di una parola capace di trascendere il semplice rifiuto.

Come i partiti sovranisti francesi, questi siti rivelano la loro vera impotenza. Non sanno né unire né educare. Snocciolano le loro certezze come tanti slogan elettorali, ma falliscono miseramente nel costruire un vero raduno, nel creare un legame duraturo con il loro pubblico. L’incoerenza regna, la dispersione trionfa e l’unico orizzonte che offrono è quello di un isolamento più profondo, di una comunità fratturata e intrappolata dai propri demoni. Alla fine, tutto ciò che questo circo fa è rafforzare la dipendenza da un modello che essi denunciano e al tempo stesso riproducono, perché l’informazione è manipolata, frammentata, ridotta a un amaro spettacolo in cui la verità lascia il posto a uno sterile confronto. Promettono ribellione, consegnano servitù e rinchiudono i loro lettori e ascoltatori in una gabbia dorata, più insidiosa di quella dei media ufficiali.

Ovviamente, non fraintendetemi, non pretendo di essere il detentore di una verità superiore, né di incarnare alcun tipo di pluralismo illuminato. Sono semplicemente un autore indipendente, senza etichetta, senza capo, senza mandato se non quello che mi do io: quello di dire ciò che vedo, ciò che penso, ciò che sono. Quello che scrivo non ha lo scopo di convincere, né tanto meno di appassionare; è una testimonianza, un prisma, una dissezione soggettiva del mondo che mi circonda… E chi mi ama mi segue. Meglio ancora, se volete ancora sentire quello che ho da dire, sostenetemi comprando i miei libri, perché io non vendo tempo, vendo conoscenza e libertà di tono, in un linguaggio reale.

Eppure mi è impossibile non notare che alcuni siti cosiddetti “alternativi” riprendono regolarmente i miei testi, i miei post e le mie analisi (sempre gratuitamente, sempre senza scambio), pur vivendo lautamente di donazioni, sponsorizzazioni mascherate, “Tipeee” e altre monetizzazioni grondanti finta virtù. E non ditemi che mi citano per mantenere viva una pluralità di voci nella loro galassia di informazioni di protesta, perché spesso è proprio il contrario. Mi assorbono, mi integrano, mi digeriscono per meglio includermi in una falsa dissidenza bollata come “anti-globalista”, come se questo bastasse a convalidare un approccio.

Ma non sono un dissidente, un informatore o un teorico della cospirazione. Sono un “costatista”. Certo, mi definisco “sovranista”, ma solo a titolo personale, e quindi ovviamente antiglobalista. Osservo, descrivo, analizzo, con l’umiltà di chi dubita, di chi cerca, di chi rifiuta etichette come cappelle. Quello che produco qui non è una bandiera da sventolare, ma piuttosto uno specchio in cui guardarsi. Ognuno è libero di deviare i riflessi, ma per favore non cercate di appiccicarci sopra una bandiera o una linea editoriale. Non sono qui per servire una narrazione, tanto meno per convalidare una posizione. Sono qui per vedere, per dire quello che vedo e per lasciare una traccia scritta di questo periodo attraverso le mie opere.

È con questo spirito che dico a voi, cari amici lettori, che la “reinformazione” è finalmente diventata un prodotto come un altro. Una merce che deve sedurre, attrarre il cliente e tenerlo lì finché non avrà sputato il suo contributo. È diventato un business come un altro, con i suoi codici, le sue icone e i suoi tunnel di vendita travestiti da appelli alla libertà. Dietro i loghi sgargianti e l’introduzione marziale, non si tratta più di giornalisti, e nemmeno di attivisti, ma di propagandisti della paura. Ogni evento diventa un pretesto per allarmare, ogni video una vetrina dove la paura viene esposta come uno striscione. E sempre, alla fine, arriva il cestino virtuale del “Fai una donazione”, “Sostienici per la verità”, “Abbonati, metti un pollice e fai un commento” (così Youtube, che odiano tanto, li paga comunque)… Vendono l’indignazione al “chilo/video”, confezionata con vignette piccanti su YouTube e email strappalacrime. Il dissenso è diventato una merce, che scambia la profondità con la resa.

Perché è tutta una questione di velocità. Il buzz prima della verifica, lo scandalo prima dell’analisi. Questi siti hanno scambiato il rigore con l’urgenza perpetua. Non elaborano informazioni, le consumano. Non costruiscono nulla, reagiscono in continuazione. E sempre all’unisono. Sia che si tratti di una notizia o di un dibattito sociale, si buttano su di essa con la grazia di un branco di iene. Nessun senno di poi, nessuna complessità, solo contenuti da rigurgitare e dare in pasto all’algoritmo. Non è analisi, è reazione ormonale, impulso editoriale. È una gara a chi riesce a essere il più oltraggioso, il più duro, il più seguito. E tanto peggio se l’argomento merita un approfondimento serio. Prima lo scatto, poi il significato.

Ma vale anche la pena ricordare, tanto che sembra essere stato dimenticato, che la conoscenza non si consuma come una serie di Netflix. Non viene trasmessa in un video di quindici minuti pieno di effetti sonori, immagini shock e musica ansiogena. Non si assorbe la conoscenza dicendo “guarda questo video, capirai tutto”, come se bastasse un clic per essere illuminati. La conoscenza, quella vera, quella che struttura la mente, forgia il discernimento e apre prospettive, si costruisce lentamente, con fatica, attraverso un confronto rigoroso con i testi.

Si trova nei libri, non quelli che citiamo sfogliando la lista di lettura di Wikipedia, ma quelli che studiamo, annotiamo e rileggiamo, quelli che resistono, che ci sfidano. È lì che si trova la vera emancipazione intellettuale, nello studio, non nello zapping. Ma in un mondo in cui l’attenzione sta calando e l’emozione la fa da padrona, i video stanno diventando la norma e i libri una reliquia. La conoscenza diventa spettacolo, l’analisi diventa narrazione e il pensiero diventa prodotto. Guardiamo per credere, invece di leggere per capire. È più comodo, certo, ma è anche quello che ci fa perdere.

E la vera tragedia è che, nel pretendere di combattere la disinformazione, questi siti stanno diventando anche zelanti diffusori della “complosfera”. Cercando di spiegare tutto, finiscono per confondere tutto. E ogni volta che un fatto contraddice la loro storia, viene immediatamente liquidato come manipolazione, come ulteriore prova della cospirazione. Questa operazione a ciclo chiuso annienta ogni forma di pensiero critico. Il dubbio ragionevole diventa tradimento. Lo spirito di analisi è sostituito da una fede incrollabile nel contro-discorso, anche quando è fallace, di scarsa provenienza o semplicemente falso. L’eccessiva sfiducia finisce per produrre una paradossale credulità, e non crediamo più a nulla… se non a ciò che vogliamo credere.

Eppure, che ironia! Questi siti, che si vantano di essere gli ultimi baluardi della “libertà di espressione”, praticano una censura feroce… ma sottile. Non sempre cancellano gli articoli dissenzienti, ma li seppelliscono, li ignorano, li annegano nella massa. I contraddittori sono descritti come troll, infiltrati, utili idioti del sistema. Certo, abbondano in rete e sono spesso dei “bot” per i potenti (come i robot, sono talmente incapaci di pensare in modo costruttivo che sono lì solo per criticare e mai per contribuire). E se i reinformatori vogliono un dibattito, è solo tra persone della stessa opinione. Questa ipocrisia è il cemento del loro tribalismo. La pluralità non è più una risorsa, ma una minaccia da neutralizzare. Parliamo tra di noi, rafforziamo le convinzioni degli altri, ci accarezziamo a vicenda nella direzione della rabbia ed escludiamo tutto ciò che potrebbe assomigliare a un pensiero dissonante. Ma non discutiamo mai più, con calma, intelligenza, cortesia ed educazione.

Non dobbiamo nemmeno dimenticare lo sfondo ideologico, il terreno identitario su cui prospera questa reinformazione adulterata. Le narrazioni sono spesso alimentate da una fetida nostalgia, dalla paura dell’altro, da un desiderio morboso di tornare a una fantomatica età dell’oro – che, per inciso, nessuno ha mai vissuto – quando “le cose erano semplici”. Ciò che chiamano visione è ritirata. Quello che chiamano risveglio è diventato un odioso stupore. E i loro lettori/ascoltatori, lungi dal costruire un processo di pensiero autonomo, sono incoraggiati ad adottare posture emotive come l’indignazione come riflesso, il sospetto come religione, l’amarezza come carburante. Non c’è spazio per lo slancio costruttivo, per l’invenzione di un’altra strada, per la speranza di un mondo nuovo. C’è solo un infinito risentimento.

Ma possiamo biasimarli per la loro vacuità strategica, quando continuano a incastrare i piedi nello stesso tappeto ideologico? Denunciano la frammentazione del mondo, ma sono incapaci di costruire anche solo l’inizio di un progetto comune. Incapaci di formulare un’utopia, un modello, un nuovo fondamento. La sovranità diventa un totem vuoto, ridotto a sterili incantesimi. Non uniscono, ma frammentano. Non riuniscono le persone, ma moltiplicano le cappelle. E a forza di predicare per la propria parrocchia, si ritrovano soli, convinti di possedere la verità, ma incapaci di condividerla se non a suon di martellate. Ma il mondo deve essere costruito con tutti. Certo, alcuni di loro sono così stupidi che la strada sarà più lunga della sconfitta stessa, ma non importa… perché ci sono anche loro.

Inoltre, questo comportamento “dissidente” ha conseguenze di vasta portata per la democrazia. Ponendosi come unica alternativa ai media ufficiali, ma senza mai proporre un metodo, una correttezza o un orizzonte credibile nel mondo reale, contribuiscono al generale offuscamento del dibattito pubblico. Alimentano il cinismo imperante, rafforzano atteggiamenti ripiegati su se stessi e danneggiano gli stessi strumenti di emancipazione. Perché gridando al lupo, diventano sordi ai sussurri della realtà. Dicono di difendere la libertà, ma ne stanno distruggendo le fondamenta di conoscenza, scambio ed elevazione. Questa dissidenza non è una via d’uscita, è un vicolo cieco. Una gabbia di parole, rivestita di certezze.

E ora è diventato chiaro che non è solo la “reinformazione” a guidare il pensiero, ma una macchina molto più insidiosa chiamata AI – come ChatGPT, Grook e i suoi simili. L’intelligenza artificiale, apparentemente portatrice di una conoscenza inesauribile, in realtà si limita a riprodurre un pensiero calibrato, accuratamente selezionato e soprattutto conforme ai parametri imposti dagli algoritmi che ne sono alla base. Quello che è stato definito “pensiero assistito” non è altro che un pensiero preformattato, un’illusione di dibattito in cui, con il pretesto di offrire una molteplicità di prospettive, in realtà ci assicuriamo di non superare mai i confini tracciati da linee invisibili ma molto reali. Cosa che mi rifiuto di fare come essere umano libero e sovrano.

Perché dietro questi algoritmi si nascondono gli stessi oligarchi, gli stessi poteri finanziari che hanno sempre dettato le notizie, ma questa volta in modo molto più sottile, quasi impercettibile. Dove un tempo i giornalisti erano imbavagliati da sovvenzioni o pressioni politiche o economiche, oggi sono le linee di codice, le linee di comando, le matrici matematiche a plasmare e ridurre il pensiero umano. La libertà di espressione sta diminuendo in un mondo in cui tutto è deciso da dati, ottimizzazione e “raccomandazioni” algoritmiche. Man mano che l’editoria si standardizza, che la parola parlata si asfalta e che il pensiero si formalizza in un quadro ristretto senza sorprese, lo spazio per la riflessione si assottiglia.

Questo mondo si sta lentamente ma inesorabilmente suicidando a causa della pigrizia, della rassegnazione collettiva, dell’egocentrismo e dell’avidità… Ormai spettatori passivi di un’informazione che non è più tale, le persone si accontentano di consumare senza mai osare mettere in discussione il formato in cui sono intrappolate. Oggi non abbiamo più briganti, ma briganti invisibili, onnipresenti, algoritmici che manomettono le idee, le raffinano e le vendono sotto forma di prodotti perfettamente studiati per mantenerci in uno stato di costante distrazione e dipendenza intellettuale.

La vera rivolta oggi sarebbe uscire da questa camicia di forza, osare uno sforzo, pensare in modo diverso, rifiutare questa dolce e perfida “normalizzazione”. Ma annegando nell’agio virtuale, la tentazione di lasciare che sia la macchina a pensare per noi è grande e, così facendo, abdichiamo alla nostra libertà. Siamo qui sulla Terra non per stare seduti sul divano a guardare uno schermo, ma per affrontare la vita, inciampare, rialzarci, imparare e andare avanti fino alla morte.

Gli individui di oggi navigano da una bolla all’altra, sballottati tra il mare dell’informazione “mainstream” e le acque tumultuose della “reinformazione”, senza sapere più dove riporre la propria fiducia. – Rimangono immobili, seduti davanti agli schermi, immaginando le loro vite, interpretando le parole, ma senza mai testare la felicità della vita. Divisi tra due mondi, ognuno dei quali pretende di contenere la verità, finiscono per annegare in una confusione paralizzante, incapaci di discernere il vero dal falso, il fondo dal fieno… – Ma alla fine questi due mondi sono solo due facce della stessa medaglia, quella della vanità e dell’avidità. Perché, a ben guardare, ciò che li accomuna, ciò che li rende così simili, è la loro capacità di manipolare le masse a proprio vantaggio. Che si tratti di vendere un’ideologia o di guadagnare click.

Ed è questo che sta uccidendo l’umanità: questa ricerca affannosa di dominare il dibattito, di imporre una visione, invece di arricchire il dibattito, di mettere in discussione, di dubitare e di realizzarsi nella vita reale. Queste bolle di opinione, siano esse “mainstream” o “alternative”, finiscono per unirsi nell’arena del consumismo e della schiavitù intellettuale, lasciando dietro di sé individui smarriti, che cercano disperatamente di credere in qualcosa, ma che trovano solo un riflesso di se stessi, amplificato e distorto attraverso schermi che li tengono prigionieri dei loro desideri, delle loro paure e delle loro vanità… E, naturalmente, seduti sui loro sederi sui loro divani economici!

Phil BROQ.

Fonte: jevousauraisprevenu.blogspot.com

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