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Il cast originale di ghostbuster

I dadaisti acchiappafanstasmi

Testo esoterico per utenti esigenti…..buona lettura.

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Il Dadaismo

Il Dadaismo è un movimento nato in Svizzera, a Zurigo, il 5 febbraio 1916 che si svilupperà anche a Berlino, Parigi e New York.

I fondatori sono Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck e Hans Richter. 

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L’inaugurazione del Cabaret Voltaire, ideato dal regista Hugo Bal,l è l’evento che segna la nascita del Dadaismo (ma è più opportuno chiamarlo DADA). Gli succede nel 1922  il Surrealismo movimento che può essere considerato la pars construens dopo la parsdestruens costituita da Dada.

Spettacoli assurdi provocatori delle serate al Cabaret Voltaire somigliano a quelle dei futuristi. La parola d’ordine era “épater le bourgeois”, cioè scandalizzare il borghese.

Il Futurismo e Dadaismo hanno in comune l’intento dissacratorio e la ricerca di nuove forme d’arte. La guerra li disunisce: I futuristi sono interventisti, militaristi (e per questo, con l’ascesa del fascismo si collocheranno a destra), i dadaisti sono dichiaratamente contrari alla guerra, aspetto che li colloca politicamente a sinistra.

Max Ernst nasce a Brühl, Germania, il 2 aprile 1891.

Nei primi anni venti partecipa alle attività dei surrealisti con Paul Eluard e André Breton poi nel 1914 conosce Jean Hans Arp con il quale stringerà un’amicizia che durerà tutta la vita. Nel 1975 il Museo Solomon R. Guggenheim di New York gli dedica un’importante retrospettiva presentata poi, con alcune variazioni, al Musée National d’Art Moderne di Parigi. Ernst muore a Parigi il 1 aprile 1976.

La poetica del caso d

Tutta l’arte di Arp è segnata dalla ricerca, attraverso la spontanea creatività dell’artista, determinata dal caso, di una essenza spirituale della realtà, quale essa è, al di là delle forme concrete in cui solitamente si manifesta; essenza che non riusciamo a cogliere, al di fuori della creazione artistica, perché la nostra percezione è abituata a muoversi soltanto nel mondo delle forme concrete, perdendo la capacità di andare oltre il livello della realtà materiale. Il Dadaismo rifiuta ogni atteggiamento razionale basandosi solamente sulla casualità, meccanismo utilizzato dai surrealisti, per far emergere l’inconscio umano, e dagli espressionisti astratti, come Jackson Pollock. Nell’artista il dadaismo si trasforma in surrealismo, come conferma lui stesso, con la seguente citazione:

« La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a noi incomprensibile come la causa prima onde origina la vita, può essere conosciuta soltanto in un completo abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa legge creerà la vita vera e propria.

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Figura 1: La Forêt (La Foresta). 1927-28. Di Max Ernst. Olio su tela 96,3 x 129,5 cm. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R.

La Foresta è dunque, per Max Ernst, un’opera come quelle che vi fanno seguito, per scandalizzare il borghese con l’intento dissacratorio e la realizzazione di una nuova forma d’arte. Per lui è il modo per concepire la legge del caso secondo la poetica dell’idea di Jean Hans Arp. Questo può far capire che il surrealista Ernst non poteva essere conscio di ciò che concepiva dipingendo. Altrimenti non poteva legarsi al Caso. E questo fa capire che il dipinto La foresta, e tutti gli altri fatti da lui, non potevano avere spiegazioni logiche, razionali.

Il Manifesto Surrealista di André Breton (1924) proclamava “il puro automatismo psichico” come ideale artistico, enfatizzando l’ispirazione derivata dalla giustapposizione casuale di forme e dall’uso fortuito di materiali. Max Ernst, influenzato dalle idee di Breton nel 1924, sviluppa poco dopo la tecnica del frottage o sfregamento. Creando i suoi primi frottage l’artista fa cadere a casaccio sulle tavole del pavimento dei pezzi di carta, poi li strofina con una matita o un gesso, ricalcando così le nervature del legno sulla carte. Successivamente adatta questa tecnica alla pittura a olio, raschiando il colore su tele preparate con materiali come fili di ferro, paglia da sedie, foglie, bottoni, o pezzi di spago.

Usando la tecnica del grattage o raschiamento Ernst ricopre completamente le sue tele con segni casuali e poi interpreta le immagini che ne emergono, permettendo così a questa trama di segni di suggerire la composizione in modo spontaneo. In quest’opera l’artista pone la tela sopra una superficie ruvida (forse legno), applica il colore a olio con un raschietto sulla tela, poi sfrega, raschia, e infine dipinge la zona degli alberi. Il soggetto della fitta foresta ricorre spesso nell’opera di Ernst a cavallo tra gli anni ’20 e ’30. Queste tele contengono generalmente una parete di alberi, un disco solare e l’apparizione di un uccello che volteggia tra il fogliame. >>[1]

Mi sovviene la geomanzia un’antica tecnica divinatoria. La parola deriva dal greco geōmanteía (geō “terra” e manteía “divinazione”) e significa “divinazione per mezzo della terra”, a differenza di Max Ernst che ricorre agli artifizi della pittura di cui si è parlato sopra.

Gli storici ipotizzano che la geomanzia sia nata nell’VIII secolo nell’Africa nord-orientale e che con l’espansione con le sue rotte commerciali dell’Islam si sia diffusa in Africa e in Medio Oriente. In Mesopotamia e nella penisola Arabica veniva praticata dalle popolazioni primitive. In Europa comparve tra l’XI e il XII secolo attraverso la Spagna musulmana. La Geomanzia è il più antico sistema divinatorio ancora oggi praticato in Occidente.

Nella forma più antica della tradizione mediterranea il geomante prendeva fra le mani una manciata di terriccio, la gettava al suolo garbatamente, quindi interpretava le forme createsi. Ecco il legame della geomanzia con la surrealtà di Max Ernst con la tecnica del frottage o sfregamento e altro. Il geomante, oppure, si serviva di un pugnale con il quale tracciava punti sulla sabbia, che in alternativa potevano essere anche dei sassolini posti sulla terra.

Nella versione attuale, chiamata geomanzia sulla carta, si formula una domanda e quindi, si picchietta con la punta di una matita su un foglio tracciandovi istintivamente dei piccoli cerchi, o puntini, in sedici file, di quattro gruppi ciascuno. Vi fanno seguito diverse altre operazioni e nella conclusione la parte destra del tema geomantico, “testimone destro incluso”, rappresenta il passato, un passato, anche molto vicino, mentre la parte sinistra, “testimone sinistro incluso”, si riferisce ad un futuro piuttosto vicino. Le figure possibili sono sedici, alcune benefiche, altre di auspicio meno lieto, alcune neutre.[2]

Altra prova quelli della geomanzia sulla carta moderna con la surrealtà pittorica di Max Ernst che può considerarsi insieme ad altri com lui, dei geomanti dell’arte. Ma però, a differenza dei geomanti della tecnica divinatoria che alla fine emettono un responso, i surrealisti non sono in grado di concepirlo. Che importa, a loro interessa l’arte del dipingere e scandalizzare il borghese con l’intento dissacratorio, questo a a loro importava.

Il cerchio e il suo centro sembra un certo sole, non come quello luminoso che illumina la Terra, che il surrealista Max Ernst immagina nella sua concezione nell’intento di farlo emergere in nuova realtà subconscia. Ma facciamo venire in soccorso la Sezione Aurea, una sorta di Regina che l’arte pittorica ha sempre condiviso per rimarcare virtù ma anche difetti, come un giudice esemplare cui affidarsi.

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Figura 2: La Forêt (La Foresta). 1927-28. Di Max Ernst. La possibilità della forestabile interpretazione.

La linea B della Sezione Aurea suggerisce la visione della geometria del pentagramma rovesciato. Il pentagramma è stato sempre utilizzato come simbolo sacro nella pratica dei culti venusiani per l’incarnazione della forza, della bellezza e maggiormente per la sessualità. Conta anche la concezione come riproduzione in miniatura del processo creativo e immanente che regge l’universo.

Le cinque punte del pentagramma simboleggiano i cinque elementi metafisici dell’acqua, dell’aria, del fuoco, della terra e dello spirito. Ma nel nostro caso il pentagramma è capovolto e rappresenta il mondo che contrasta tutte le concezioni suddette e si deve considerare quindi di ordine satanico.

« Le dieci corna che hai visto sono dieci re, il quali non hanno ancora ricevuto un regno, ma riceveranno potere regale, per un ora soltano insieme con la bestia. Questi hanno un unico intento: consegnare la loro forza e il loro potere alla bestia. Essi combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà, perché è il Signore dei Signori e il Re dei re e quelli con lui sono chiamati, gli eletti e i fedeli ». (Ap 17,12:14) « Il bacio » 1927

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Figura 3: Le Baiser (Il Bacio). Di Max Ernst. 1927. Olio su tela 129 x 161,2 cm.Conservato nella Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, New York).

Quest’altra opera di Max Ernst segue il filo di quella precedente della Foresta, per scandalizzare il borghese con l’intento di realizzazione una nuova forma d’arte. Come già detto, per lui era il modo per concepire la legge del caso, egli però non poteva essere conscio di ciò che concepiva dipingendolo. Altrimenti non poteva legarsi al Caso. E questo fa capire che anche il dipinto Il Bacio, non poteva avere spiegazioni logiche, razionali.

Leggiamo la descrizione di questo quadro che fa il sito di Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R.) che lo conserva nella sua Collezione.

Dalle descrizioni ironicamente cliniche di avvenimenti del periodo dada Max Ernst passa alla celebrazione della sessualità disinibita nelle sue opere surrealiste. Il suo legame e matrimonio con la giovane Marie-Berthe Aurenche nel 1927 gli ispirano probabilmente il soggetto erotico di questo e altri dipinti di quell’anno. Le principali linee che compongono quest’opera possono essere state determinate dalle tracce di una corda lasciata cadere sulla superficie preparatoria, procedimento conforme ai concetti surrealisti sull’importanza degli effetti casuali.

Ernst tuttavia usa un sistema reticolare coordinato per riportare le sue configurazioni di corda sulla tela, sottoponendo così questi effetti casuali a una manipolazione consapevole. Il gruppo centrale a forma di piramide e il gesto dell’abbraccio della figura superiore ne Il bacio, hanno suggerito paragoni con composizioni rinascimentali, e in particolar modo con la Sant’Anna, la Vergine e il Bambino di Leonardo da Vinci (1503–1519, Musée du Louvre, Parigi). >>[1]

Anche per Il Bacio si può dire che il suo autore, Max Ernst, sia una sorta di nuovo Geomante dell’Arte com’è stato detto per La Foresta.

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Figura 4: La Baiser (Il Bacio) 1927. Di Max Ernst. Il ricorso alla Sezione Aurea.

poste sui cardini aurei opposti che ho evidenziato, sono da un lato, una azzurra volatilità di un carattere aereo e le mani che servono per toccare la materialità, se pur fornite di unghie di natura aerea. Insomma è un connubio impossibile da attuare che invece può esserlo. Tutto è impostato in questa confusione di elementi corporei ma all’estremità destra in basso è mostrato un piede che non appartiene ai due, anche se sembra così, ed è di natura umana a loro estranea.

Ma non ha cinque dita, ne ha quattro come quelle della mano color azzurro, come a ipotizzare, ma incertamente, che avviene un’azione per mezzo di questo piede per realizzare l’unione dei due “estranei” in apparenza. Per la realtà materiale umana non se ne trova spiegazione, ma per quella ermetica si. Si tratta dell’ultima fase della prova alchemica del nero detta nigredo.

La nigredo, il passo iniziale nel percorso rigenerativo, rappresentato da un corvo nero, da un teschio o da una testa decapitata, è la fase in cui occorre “far morire tutti gli ingredienti alchemici” e cuocerli a lungo in una massa uniforme nera.

A livello cosmico la nigredo è rappresentata da Saturno, pianeta associato ai colori scuri e nei metalli alchemici al piombo. La nigredo rappresenta anche la crocifissione di Cristo, il cui corpo viene distrutto ed il suo sangue disperso. Anche il Golgota, che significa appunto «luogo del teschio», divenne un’immagine ricorrente per descrivere la nigredo. Di qui scaturisce l’acronimo V.I.T.R.I.O.L. che rappresenta il dissolvimento degli aspetti più egoistici della essere umano, così come degli elementi fisici più grossolani, dissolti e poi ricomposti in forma nobile nel procedimento che porta alla creazione della Pietra Filosofale. Tale acronimo sta per «Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem», che significa «Visita

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Figura 5: L’illustrazione finale del Rosarium Philosophorum, raffigurante il vitriol, col simbolo del Leone che consuma il Sole rappresenta la «morte rossa» dell’ultima fase alchemica. L’interno della Terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta».

L’alchimista ha come scopo il completamento della propria fase di conoscenza, gli necessita perciò di immergersi totalmente in questo pozzo dell’essere e e fra nascere in lui  il mistero. Il sole rappresenta tutto ciò che l’alchimista ha portato alla luce, cioè al livello della coscienza e corrisponde fisicamente alla creazione dell’Oro puro. Il Leone Verde è l’aspetto divorante e dissolvente dell’anima, che dissolve immediatamente continuamente tutto ciò che si era compreso o percepito. Gli alchii e per analogia gli alchimisti lo identificavano con il Vitriol, l’Acqua Ragia, l’acido tinto di verde che è il solo a poter dissolvere l’Oro. L’Acqua Ragia per gli alchimisti è l’acido nitroclorico o acido nitromuriatico, una miscela instabile con la capacità di sciogliere l’oro, il platino e il palladio. Essa è considerata dagli alchimisti il “Re dei metalli” in quanto praticamente inattaccabile dalle altre sostanze.

Un possibile esempio della fase dell’azione del leone verde, spesso rintracciata fra i simboli alchemici, è la rete come se il Leone verde sia un pescatore. Potremmo intravedere il Leone verde in questa fase dell’Apocalisse di Giovanni:

« Il mostro e le dieci corna che hai visto odieranno la prostituta, la lasceranno nuda e priva di tutto, divideranno la sua carne e distruggeranno i suoi resti con il fuoco. È stato Dio a mettere in mente ai dieci re di eseguire il suo progetto. Così agiranno di comune accordo e daranno il loro potere al mostro, fino a che non sia compiuto tutto ciò che Dio ha detto.

La donna che hai visto è la grande città che comanda su tutti i re della terra». (Ap 17,16:18)

L’éléphant Célèbes, il leone verde

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Figura 6: L’éléphant Célèbes, o Elefante Celebes. 1921, di Max Ernst 125 × 108 cm, olio su tela. Situato nella Tate Modern di Londra.

L’éléphant Célèbes, o Elefante Celebes, è un dipinto, uno dei primi a sfruttare la tecnica del “collage pittorico”, che simula l’accostamento di numerosi frammenti cartacei fra loro. Ecco che in tal modo si può immaginare la sua eterogeneità allo scopo di compromettere, se non impedire, la comprensione logica e fece da ponte fra lo stile dadaista e quello surreale.

L’éléphant Célèbes è dunque, per Max Ernst, il modo per concepire la legge del caso secondo la poetica dell’idea di Jean Hans Arp. Questo può far capire che il surrealista Ernst non poteva essere conscio di ciò che concepiva dipingendo. Altrimenti non poteva legarsi al Caso. E questo fa capire che il dipinto éléphant Célèbes, e tutti gli altri fatti da lui, non potevano avere spiegazioni logiche, razionali.

Di qui la spiegazione di coloro che si apprestavano a vedere quest’opera e tentare di darvi una spiegazione logica, non potevano che vederla in questo modo:

<< Nell’opera è raffigurata un’imponente e grottesca creatura tondeggiante con due gambe massicce e una lunga protuberanza che collega il suo corpo alla piccola testa. Sulla sua “cima” è presente un motivo bizzarro che è forse impossibile da associare a qualcosa di esistente. Alla destra del mostro sono visibili un nudo femminile senza testa con il braccio destro sollevato e, dietro di lei, una struttura verticale composta di motivi geometrici. Sebbene vi siano delle nuvole sulla parte superiore del dipinto, la presenza di due pesci in alto a sinistra fa supporre che sia ambientato in un fondale marino.

Dominata da colori tendenti al grigio ed al bianco, L’éléphant Célèbes contrappone elementi scuri, quali la pelle del mostro e il colore bluastro della struttura verticale alla sua sinistra, a quelli chiari, quali la parte inferiore dello sfondo e il nudo femminile.

<< L’éléphant Célèbes è il risultato di un “assemblamento fatto con il subconscio” di diverse immagini che Ernst vide in alcuni testi illustrati, quali cataloghi e giornali scientifici. Ciò è dimostrato, ad esempio, dall’aspetto del mostro, che riprende quello di un vaso africano per il grano apparso in una rivista. Secondo Ernst, lo stile “collagistico” servirebbe, infatti, a generare un effetto allucinatorio. L’opera risente l’influenza della pittura metafisica di de Chirico dell’arte esotica e di quella primitiva, come mette in evidenza il volto della creatura somigliante ad una maschera africana. La figura a torre a destra sembra ripresa dall’opera The Hat Makes the Man dello stesso Ernst, fig. 7, mentre il titolo è ispirato ad un poemetto infantile e derisorio che ha come protagonista un elefante.

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Figura 7: Max Ernst. The Hat Makes the Man (È il cappello che fa l’uomo). 1920. Ubicazione: Museum of Modern Art, New York City.

Come si vede nessun legame logico e razionale può collimarsi con la realtà, ma è solo così che è possibile legarsi all’immaginario caso. Mi sovviene la pratica esoterica di coloro che cercano di sdoppiarsi per accedere al mondo occulto astrale-eterico, oltre a vederlo, come già detto, con la geomanzia.

Da dove partire per individuare una possibile realtà subconscia legata alla figura emblematica dell’éléphant Célèbes? La concezione di questo enorme animale, il più grande fra quelli esistenti, capace di reggere pesi enormi, porta a individuare la storia esoterica della leggenda di San Cristoforo che regge sulle spalle il Bambino-Re.

Il Sigillo di Hermes dell’Intelletto, il Vitriol dell’Alchimia che già si conosce

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Figura 8: Leggenda di San Cristoforo. Dal libro di Fulcanelli: Il Mistero delle Cattedrali.

Alle pagg. 150-156 del libro “Il Mistero delle Cattedrali” di Fulcanelli, Edizioni Mediterranee, è posta in evidenza tutta una tematica ermetica incentrata su una cintura tessita secondo linee incrociate, nell’intento di rappresentare la superficie del solvente mercuriale quando è stato preparato canonicamente.

La fig. 3 (nel libro è la tav. XLII) mostra questa cintura indossata da San Cristoforo che porta sulle spalle il Bambino-Re secondo la nota leggenda della quale riporto la parte saliente che riguarda il segreto riposto nella suddetta cintura.

« La cintura di Offerus, il nome pagano di san Cristoforo ancor prima di essere santo, secondo la leggenda, « è trapunta secondo linee incrociate, simili a quelle che si vedono sulla superficie del solvente quando è stato preparato canonicamente. Questo è il segno, che tutti i Filosofi riconoscono per indicare, esteriormente, la virtù, la perfezione e l’estrema purezza intrinseche della loro sostanza mercuriale. […] Questo segno, gli autori l’hanno chiamato Sigillo di Hermes, Sale dei Saggi, ‒ cosa questa che getta la confusione nello spirito dei ricercatori, ‒ segno e impronta dell’Onnipotente, ed anche sua firma, ed ancora Stella dei Magi, Stella polare, ecc. Questa disposizione geometrica sussiste ed appare con maggiore definizione quando si è messo a sciogliere l’oro nel mercurio, per portarlo al suo stadio primitivo, quello di oro giovane o ringiovanito, in una parola di oro bambino.

Per questa ragione, il mercurio, fedele servitore e Scel della terra, è chiamato Fontana di giovinezza. Quindi i Filosofi si esprimono chiaramente quando insegnano che il mercurio, una volta effettuata la soluzione, porta il bambino, il Figlio del Sole, il Piccolo Re (Reuccio), come una vera e propria madre, perché, in effetti, l’oro, nel suo seno, rinasce.

Notare che nelle iconografie le culle sono le classiche ceste di vimini intrecciati dove è adagiato il bambino ermetico appena nato, ma è talmente pesante che deve sostenerlo il gigante San Cristoforo, l’elefante Celebes di Marx Ernst.

Questa concezione porta a individuare, come già fatto capire, nell’aspetto meccanico della grossa sfera, una forza che è legata al bastone di San Cristoforo, l’analogo bastone RN della fig. 1. Il legame di questo bastone dell’éléphant Célèbes con l’opera dello stesso Max Ernst, The Hat Makes the Man, sembra far capire la sua natura umana del capo. In particolare col “cappello”. Di qui il passo è breve per collegarlo al Bambino-Re in groppa alla sfera, ovvero all’elefante che esprime la forza per reggerlo. La sua forma geometrica ricorda la famosa relazione cerchio-quadrato il cui rapporto è 3,14…, il famoso π, cioè Pi greco. Di qui si spiega la rotondità circolare intorno al collo della donna senza testa del punto N.

Il piccolo gruppo meccanico in groppa all’elefante Celebes è di tre colori, il verde, il rosso e il blu quasi viola. Queste colorazion ci ricordano una cosa nota che del famoso Gustavo Adolfo Rol, un sensitivo italiano, noto per le sue presunte capacità paranormali: “la forza verde”. Nacque a Torino il 20 giugno 1903 e morì nella stessa città il 22 settembre 1994.

Tra le numerose enunciazioni di Gustavo Rol, una in particolare è particolarmente nota con una sua frase:

« Ho scoperto una tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale ed il calore. Ho perduto la gioia di vivere. La potenza mi fa paura. Non scriverò più nulla. »

Fu un anno critico per Rol a causa di questa scoperta, con molti problemi di salute.
Ma in cambio intuì che questa forza, che lui chiamò “verde”, poteva transitare per una “porta” nell’uomo per mettere in comunicazione il suo spirito con la materia fisica del corpo. Di qui si adoperò con gli studi per acquisire talenti e pratica per acquisire  in lui quella forza utilizzando i tre canali percettivi più comuni dell’uomo (visivo, uditivo e cinestesico).

Il verde (la vista), situato al centro dello spettro visibile, è uno dei colori percepibili dall’occhio umano misurabile tramite onde elettromagnetiche. Nelle pratiche meditative, il colore verde è spesso visualizzato, poiché rappresenta il chakra del cuore del sistema dei chakra. È posto fra i tre inferiori (dell’istinto e materia) e quelli superiori (spirito e piani sottili esistenziali) e funge da legante.

La quinta musicale (l’udito). L’intervallo di quinta, particolarmente significativo, rappresenta la distanza di sette semitoni tra due note nella scala musicale, corrispondente a tre toni e un semitono. La corrispondenza di queste due note con questa distanza creauna consonanza perfettapiacevole all’orecchio, e genera un senso di armonia.

Il calore (il corpo) è ciò che si genera con il legame delle vibrazioni del verde con la quinta musicale. È la sua influenza sulla nostra immaginazione e lo stato fisico. Questo calore fa da legame piacevole e armonioso fra spirito e materia. È un meraviglioso ponte fra due mondi di una realtà tridimensionale. Ecco espresso il potere di quel Bambino-Re in groppa all’elefante Celebes.

Il triangolo della Piramide di Cheope

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Figura 9:  L’Elefante Celebes di Mazx Ernst. La geometria della Sezione Aurea che individua la Piramide di Cheope.

La croce della Sezione Aurea caratterizza ora l’elefante Celebes, ma è la Regina senza testa rappresentata a destra, un quasi semicerchio limitato dalla linea NO. Può paragonarsi ad un tutto in “corto circuito“, di un circolo di inconcepibile “corrente eterica”. Vi si potrebbe associare la batteria per la produzione di corrente elettrica, dove l’anodo corrisponde all’elettrone Sezione Aurea che cede i propri elettroni trasformandosi, nello ione Sezione Aurea del dipinto. E tutte le linee di connessione che si intrecciano fra loro “illuminando” i punti del quadro dell’elefante Celebes, come luminose lampade che brillano. Nell’anodo c’è quindi produzione di energia elettrica, cioè nella Sezione Aurea, mentre nel quadro del dipinto si manifesta il Giano bifronte con tutte le lampade a corredo quasi con vanto. Ma di chi il merito se non la Sezione Aurea?

La sua linea NO del capo della donna mancante che delinea il triangolo della Piramide di Cheope NIL di cui I è sulla linea della Sezione Aurea. La sua base LN è ortogonale al bastone RN per rappresentare la forza del suo capo. La linea RQ che parte dal capo del bastone RN conferma con la linea ortogonale QN tramite il punto P della sezione Aurea. l’altro bastone TL che collima in L con la base della piramide è l’origine della sua forza primordiale che si convertirà nella Sezione Aurea, il famoso π, cioè Pi greco.

Il segreto della Sezione Aurea nella grande piramide di Cheope: lo sviluppo della Forza Verde

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Figura 10: La piramide di Cheope a Giza.

La Grande Piramide nasconde delle informazioni matematiche, cosa che fino ad oggi è ignorata dall’egittologia ufficiale. I costruttori egizi erano coordinati dai sacerdoti che potevano concepire in modo trascendentale le suddette supposte informazioni che solo oggi, disponendo di una cultura matematica evoluta, è possibile capire su che basi il manufatto piramidale fu proporzionato e su che criteri scientifici. Tuttavia i costruttori della piramide di Cheope sapevano calcolare la circonferenza, il volume e la superficie della sfera. La misura di base delle grande opere egizie è il cubito reale.

Ma il senso della misura era connaturato nell’egizio al punto di concepirlo in modo religioso, perché era la dea Maât che rappresentava il cubito reale in forma di rettangolo. Nell’antico Egitto Maât era la regola, e la regola era Maât. Nessun concetto poteva significarne tanti alla pari di Maât. Essa era l’ordine, la saggezza, la ritualità, la rettitudine, la giustizia, la morale, l’armonia universale. Maât era il cubito dell’artigiano, secondo il quale ogni cosa veniva misurata esattamente. Era la custode della legge divina, verità perfetta e sapienza assoluta.

Si deve notare poi, che Maât, intesa come semplice termine, come vocabolo compare in diverse lingue, dal copto al babilonese passando per il greco divenendo qui radice per vocaboli come “mathema(mathema: scienza, disciplina) e le sue derivazioni “mathematicos” (mathematikòs: matematica), “mathesis” (mathesis: imparare, disciplina), “metro(metro: misuro), “metrema” (metrema: la misura), “metrios” (metrios: misurato, di giusta misura) e così via.

Eco di un’affinità con la voce Maât, si riverbera anche nel termine latino “materia”, inseribile nello stesso contesto del termine egizio. “Materia, infatti, è ciò che è fisicamente tangibile e quindi misurabile. Una “materializzazione” delle idee inerenti a Maât, è identificabile in una forma geometrica precisa, il rettangolo appunto.

Ora partendo da questi presupposti si può immaginare quanta cura ebbero quei sacerdoti egizi nel far costruire la Grande Piramide e ce ne renderemo conto, strada facendo nel procedere a esaminarla con criteri peculiarmente matematici.

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Vista dall’alto la piramide, (fig. 11) sulla parete inclinata verso sud presenta l’ingresso che conduce alla grande galleria interna. Si nota che esso non è situato sull’asse di simmetria della parete, ma è leggermente di lato, quel tanto che basta  per immaginare un piano trasversale passante per essa che, al confronto di quello di mezzo della piramide risulta più alto. Questa differenza permette di far capire che la piramide di Cheope è informata anche a pi greco oltre che alla sezione aurea. Ma si sa che gli antichi egizi conoscevano solo pi greco mentre sulla sezione aurea si è incerti.  Comunque, come già detto, il disassamento del vano di entrata fa supporre che la piramide sia informata anche a pi greco che insieme alla sezione aurea, permettono di far scaturire un’ipotetica energia bipolare energetica.

Infatti la sezione trasversale, in corrispondenza dell’ingresso della galleria, dà luogo ad un triangolo equilatero di altezza maggiore rispetto all’altro della sezione aurea di mezzeria con il semiangolo al vertice di  38,172…°, mentre quello relativo alla porta di ingresso, idoneo al pi greco, è 38,146…°.

Il fatto poi che il defunto faraone Cheope, ritenuto un dio in terra, doveva navigare col dio Ra per raggiungere il regno dei morti, ci suggerisce che il sacello tombale della piramide, in qualche modo, doveva fungere da barca solare. In conseguenza, in qualche modo contemplato nella geometria, la piramide può essere immaginata come una barca a vela di fattezze geometriche, per tradurre dei concetti metafisici derivanti dal viaggio di Cheope col dio Ra, e la parabola al posto della barca solare ce lo permette.

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Figura 12: Schema della risoluzione geometrica della piramide di Cheope col ricorso di una parabola. Disegno dell’autore.

Di qui nulla che scandalizzi immaginare il complesso piramidale unito ad una parabola sottostante, così come è stata considerata dal punto di vista della geometria nella figura accanto e particolarmente come uno speciale cristallo.

Seguono, con la fig. 12, i dati geometrici concepiti sulla base del rapporto aureo e non con la concezione di pi greco, per ottenere un ipotetico circuito energetico  confluente nella camera della Regina.

ya’ =  √ [2 / (1 + √5)] = 0,786151377…

xa’ = ya² / 2 = 0,309016994…

phi = 38,17270763…°

180° – 4phi = 27,30916948…°

yi = tang (180° – 4 phi) = 0,516341175…

xi = yi² / 2 = 0,133304104…

d = 0,080615621…

Il raggio IP è normale alla parabola e si imbatte sulla parete C’B’ riflettendosi in Q della parete opposta C’A’. Prosegue da qui la riflessione luminosa in modo verticale fino in fondo sulla parabola in R. Si sa che tutti i raggi verticali confluenti su una parabola si rifletto convergendo nel fuoco relativo, che nel nostro caso è il punto F.

Naturalmente si è capito che il punto I di partenza del supposto raggio luminoso è unico in modo che la sua inclinazione riferita alla verticale sia 180° – 4 phi, come indicato nella figura 12.

Phi è il semi-angolo al vertice della piramide. Il simbolo di phi è φ.

Nessun commento su questo raggio  salvo a vedere ora il raffronto con lo spaccato della piramide di Cheope della fig. 13, in cui si vedono i vari elementi che vi fanno parte: la tomba del Re e della Regina, la Grande Galleria ed altro.

Due cose in una: il fuoco F della parabola di arco A’OB’, su cui è posta la piramide A’B’C’, coincide con un certo punto della tomba della Regina e il raggio verticale QR della ipotetica luce, all’interno della piramide in questione, coincide con l’asse della tomba del Re.

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Figura 13: Spaccato della piramide di Cheope .Lo scettro di Osiride, Ptah e dei faraoni. Disegno dell’autore

Di qui c’è modo di far progredire un certo ragionamento che porterebbe a capire come potrebbe funzionare l’apparato tombale in questione, la cui rappresentazione monumentale può servire, naturalmente, come modello simbolico, al di là di ribadire la credenza di cultori di esoterismo un apparato per dare nuova vita al faraone Cheope per il quale è stato concepito.

Consideriamolo perciò come una certa immaginaria macchina energetica rimandata al futuro da far evolvere. La tomba del Re, parte di una struttura composta da elementi granitici che nell’insieme è chiamata Zed, fig. 14

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Figura 14: Lo Zed. Opera dell’autore

In particolare interessa la disposizione della parte superiore a questa camera, perché è costituita da cinque ranghi di travi di granito disposte uno accanto all’altro e ognuno, pesa poco più di 70 tonnellate.

Si tratta di elementi che si suppongono capaci di produrre energia elettrica per effetto piezometrico, come spiegherò di seguito.

Ossia quando questo materiale è sollecitato da forte pressione, o comunque quando vibra, per esempio in seguito a una percossa, compaiono delle cariche elettriche sulla superficie.

Il passo è breve, a ragione di ciò, per intravedere nell’enorme apparato dello Zed (fig. 14) una batteria di produzione di energia elettrica, e questo potrebbe spiegare la natura specifica del raggio verticale passante per questo manufatto. Altrimenti non si fa luce sulla supposta energia segnalata dal particolare andar di vieni del raggio in questione, passante per lo Zed, non avendo modo di alimentarsi. Volendo allacciarci al mio libro di Sphere Packing (I due leoni cibernetici), l’energia dello Zed si lega al “combustibile” Pi greco che la Sezione Aurea trasforma nel proprio numero.

Ma è la camera della Regina nel punto focale F questa fonte, e avendo scoperto la funzione di centrale elettrica dello Zed, si deve pensare che sia la Regina l’utilizzatrice dell’energia che confluisce in lei per dar luogo alla rigenerazione vitale. Di qui il percorso attraverso un condotto orizzontale, poi quello della Grande Galleria e finalmente verso la camera del Re.

Nella camera della Regina è ricavata su una parete una nicchia che ha la sagoma simile a quella della sezione trasversale della Grande Galleria, e questo li mette in relazione diretta.

In più nell’anticamera della camera del Re vi sono delle saracinesche (a destra in basso) in pietra come a voler far capire che la natura del ipotetico flusso energetico, proveniente dalla dalla camera del  Re (Pi greco) abbia a che vedere con l’acqua, che defluisce nella camera della Regina, chiaro segno di vita sulla Morte.

In conclusione la Piramide di Cheope, con le sue pietre, rappresenta il corpo umano rigenerato, l’elefante Celebes che sostiene il Bambino-Re esplicatore della “Forza Verde”.

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Figura 15: Jardin gobe avions (Giardino achiappa aeroplani) di Max Ernst. 1935-1936. Olio su tela 54 x 64,7 cm. Conservato nella Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, New York).

Realizzato tra il 1935 e il 1936, “Giardino acchiappa aeroplani” (fig. 16) è una delle quindici opere che Max Ernst realizza su questo tema, in cui aeroplani spezzati simili a nastri e fiori dal fogliame rigoglioso sono sparsi in un paesaggio composto da strutture murarie geometriche.

Il Giardino acchiappa aeroplani, come gli altri precedenti di Max Ernst, è dunque la solita opera per realizzare una nuova forma d’arte, a parte l’intento dissacratorio. Era per lui il solito modo per concepire la legge del caso secondo la poetica dell’idea di Jean Hans Arp. E naturalmente, come per le altre opere come quelle trattate in questo studio, questo può far capire che il surrealista Ernst non poteva essere conscio di ciò che concepiva dipingendo. Altrimenti non poteva legarsi al Caso. e per contro non poteva avere spiegazioni logiche, razionali.

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Figura 16: Jardin gobe avions (Giardino achiappa aeroplani) di Max Ernst. 1935-1936. Il biliardo matematico.

La rete del biliardo matematico, rappresentata con la fig. 16 non ha sbocchi nelle 4 “buche” e può considerarsi come una rete di barriera elettronica e così segnalare alla “Polizia Acchiappafantasmi” il passaggio degli «Aeroplani» molesti (i fantasmi) di Max Ernst. Le linee delle barriere sono suggerite da due filari murari. Ma questa barriera non può essere alimentata dall’esterno da energia perché non ha sbocchi. Non potrebbe funzionare per colpire gli aeroplani di passaggio che sono rappresentati dai nastri e fiori sparsi. Tuttavia può servire la capacità di Resilienza delle opere murarie per questo alimentata dall’energia in paralisi dei nastri e fiori che simboleggiano gli aeroplani molesti.

La resilienza, in psicologia è chiamata anche forza d’animo o flessibilità, un insieme di qualità mentali e caratteriali, sia innate che acquisite, capaci di saper affrontare traumi e difficoltà. Mantenere la calma è la forza interiore di persone per superare le crisi in seguito a incidenti per lungo tempo. La resilienza è come la stessa dei materiali, la capacità di assorbire l’energia in conseguenza di una deformazione, come sembra voler indicare le opere murarie del dipinto in esame.

Il dadaismo nasce nel 1916 a Zurigo presso il Cafè (o cabaret) Voltaire che prende il nome dall’omonimo filosofo illuminista, e si diffuse velocemente in Francia ed in spagna dove ebbe i suoi maggiori esponenti. Le serate del cabaret Voltaire non erano molto diverse dalle serate organizzate dai futuristi, in entrambe vi era infatti l’intento di stupire con manifestazioni inusuali e provocatorie, così da proporre un’arte nuova ed originale. Ed in effetti i due movimenti, futurismo e dadaismo , hanno diversi punti in comune come l’intento dissacratorio e la ricerca di meccanismi nuovi del fare arte; ma anche qualche punto di notevole differenza: il diverso atteggiamento nei confronti della guerra.

I futuristi nella loro posizione interventista erano favorevoli alla guerra, mentre i dadaisti erano del tutto contrari e la disprezzavano; i futuristi, nati come movimento di rottura con la tradizione precostituita, furono poi invece favorevoli ad un regime come quello fascista che rappresentò un vero e proprio sistema culturale e politico-sociale, per questo id adaisti criticarono molto i futuristi; mentre nel futurismo, quella decostruzione sintattica che si legge all’interno delle opere poetiche viene fuori da una serie di regole che i futuristi si sono date (nel manifesto essi rifiutano esplicitamente la coniugazione verbale, il verbo deve essere posto soltanto all’infinito; rifiutano l’uso dell’aggettivo e dell’avverbio…), i dadaisti invece rifiutano ogni tipo di regola, l’unico elemento chiave per il dadaismo è il caso, bisogna infatti basarsi su questo elemento non razionale che è il caso.>>[1]

Abbiamo visto che il « Giardino acchiappa aeroplani » 1935-36 è capace di resistere per resilienza alla loro inevitabile erosione a causa dellla mancanza della testa della Regina dell’elefante Celebes di Marx Ernst che non permette di far agire la sua forza mancante abbattere gli aeroplani aversi della bestia, La Forêt (La Foresta) di Max Ernst. Senza la testa, sede dell’Io, l’elefante Celebes non può esercitare  attivamente la “Forza verde” per affrontare il Re Sole, il Leone Rosso alchemico. Non se è parlato in precedenza ma ora si ha il modo di capire la ragione della testa mancante ritratta con la foto della fig. 17.

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Figura 17: Particolare di: L’Elefante Celebes di Mazx Ernst. La Regina senza testa.

Ma vedremo fra poco che fra i futuristi si cela, non sapendo, un insolito aeroplano diverso dagli altri.

« In decollo », 1932

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Figura 18. “In volo. Aeropittura futurista”, Crali Tullio (1910 – 2000) olio su cartone. Esposto al Mart.

L’aereo, con la sua elica della fig. 18, rappresenta il cervello di un volto d’uomo visto come fosse una pareidolia. I surrealisti e futuristi vi ricorrono spesso. La ruota indica la pupilla del suo occhio. Poi sotto la protuberanza a destra, che è il naso, si evidenzia con la carta pieghettata la dentatura di una bocca.

Il collo, con sorpresa, è a forma di piramide e ricorda quella di Cheope, la Grande Piramide d’Egitto che è poi la stessa dell’elefante Celebes di Marx Ernst. Inoltre la base della piramide è caratterizzata da un pettine a cinque denti che ricorda la quinta musicale

della triade completata dal verde e dal calore. Mancava alla triade della forza dell’elefante Celebes questa quinta musicale per esprimerla e far nascere il Bambino-Re in groppa all’elefante.

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La rete del biliardo matematico della fig. 19, suggerita dalla linea verde AB del dipinto con la parallela A’B’ ha sbocchi nel lato superiore a destra e al lato inferiore a sinistra. Può considerarsi come una rete di barriera elettronica e così segnalare alla “Polizia Acchiappafantasmi” il passaggio degli «Aeroplani» molesti (i fantasmi) di Max Ernst. Questa barriera può funzionare perché ha i due sbocchi per essere alimentata da energia. Può funzionare per colpire gli aeroplani di passaggio, i fantasmi. Ed ecco il soccorso atteso del Giardino acchiappa aeroplani della fig. 16 che stanno resistendo all’azione dei re al servizio della bestia, lui compreso.

In Nostradamus 10-99 ne troviamo il riscontro con molti fantasmi molesti che infestano il mondo astrale-eterico.

« La fine il lupo, il leone bue e l’asino,

Timida donna saranno con mastino:

Più non cadrà su essi la dolce manna,

Più vigilanza e custodia per i mastini. »

Gaetano Barbella

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