Per una Vera Politica dell’Immigrazione Serve Qualcuno che Intenda Realmente Porvi Termine e Non C’è
L’immigrazione è una cosa seria, ma l’impressione é che tutti hanno da dire la loro senza mettere in moto il cervello, ed ecco che si imbastiscono campagne politiche che sembrano discussioni Chioggiotte da Bar.
(Chioggia è una ridente cittadina della provincia di Venezia …….lasciateli stare che se si arrabbiano… rimpiangerete di non aver avuto a che fare con dei Black Bloc ! )
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Per una Vera Politica dell’Immigrazione
In un’importante intervista rilasciata a Le Figaro il 21 febbraio 2020, Pierre Brochand analizza i problemi posti dall’immigrazione che devono essere una priorità per gli Stati. Ne spiega le ragioni, attraverso un’ampia rassegna storica e un’analisi del contesto postcoloniale della globalizzazione. L’intervista riproduce i punti principali della presentazione fatta da Jean-Pierre Chevènement a un seminario della Fondazione Res Publica su: “Per una vera politica dell’immigrazione”.
Pierre Brochand intervistato da Eugenie Bastier.
Lei ritiene che tra tutte le sfide che il nostro Paese deve affrontare, l’immigrazione sia la più pericolosa. Altri preferirebbero riferirsi alla questione sociale o ambientale. Perché, secondo lei, l’immigrazione è una priorità?
L’immigrazione, per come l’abbiamo lasciata sviluppare per mezzo secolo, non è ovviamente l’unica sfida che il nostro Paese deve affrontare. Ma la considero la più pericolosa per almeno due motivi. Il più elementare è che riporta in auge i conflitti “non negoziabili” – religiosi, razziali, coloniali – che la Francia pensava di aver superato da tempo: 1905, 1945, 1962, a seconda dei casi. Per “non negoziabili” intendo lacune di “natura qualitativa”, che vanno differenziate dalla questione sociale, divenuta “quantitativa” grazie allo Stato sociale e al “potere d’acquisto”.
Quindi, se vogliamo essere onesti, siamo costretti a ritornare su constatazioni che si pensavano superate. Vale a dire, che esistono differenze tra le persone che né le convenzioni, né la moneta, né il dialogo, né tanto meno il “patriottismo costituzionale” possono appianare, e che queste differenze possono nuovamente mettere in pericolo la pace sociale, soprattutto in una società che, credendosi immune, rimane cieca di fronte a questo pericolo.
Da qui la mia seconda preoccupazione: Il fatto che l’ideologia della società di individui in cui viviamo ignori, per sua stessa volontà, la realtà di tale pericolo e, per lo più, la necessità di prevenirlo. Infatti, il suo dogma ultramoderno e post-politico ci impone di vedere ovunque solo individui, identici tra loro, laddove basta aprire gli occhi per vedere che esistono ancora gruppi insostituibili: “nazioni” moderne, storiche e politiche; “comunità” naturali, premoderne e prepolitiche; “culture” di più ampio respiro.
E proprio in nome di questa concezione distorta, si accettano gli immigrati come esseri solitari, con gli stessi diritti di sovranità degli autoctoni e degli assimilati. Il che non impedisce agli interessati, una volta insediati, di ricostruire le “comunità eteronome”, persino le “nazioni problematiche” a cui appartenevano in precedenza e che l’attraversamento di un confine fittizio non è bastato a far dimenticare.
Come tutte le ideologie che vengono contraddette dalla realtà, la nostra dottrina cerca di offuscarla. Un giorno nega ogni alterità in nome dei “valori della democrazia”, espressione di geometria variabile che evita di specificare. Il giorno dopo, elogia la “diversità” come arricchimento ma anche come fenomeno inevitabile. Due giorni dopo, invoca una “lotta” contro il “recinto comunale” o la “segregazione” senza essere armato dei mezzi per farlo.
Infatti, per ottenere questi mezzi, dovrà ridare allo Stato nazionale la possibilità di agire politicamente, di cui la società degli individui lo ha privato, poiché lo ha imprigionato nelle maglie dello “Stato di diritto”. Ma una tale restaurazione è stata esclusa dalla versione “progressista” della storia in cui la nostra società si considera pioniera.
Quindi, lo Stato nazionale esiste ancora, ma della sua duplice dimensione, politica e burocratica, conserva solo la seconda: quella di una vasta organizzazione umanitaria, distributrice materna di diritti e benefici, incapace di negarne l’espansione illimitata. Vietato intervenire a monte, dove è stato sostituito dal diritto, l’ex Leviatano si riduce a infliggere ferite a valle, versando miliardi nel pozzo senza fondo della “discriminazione positiva”.
Per questo credo, innanzitutto, che una vera politica dell’immigrazione richieda una dolorosa revisione, cioè non lasciare più che sia il caso ad occuparsi “ex post” di un destino presumibilmente inevitabile, ma riprendere decisamente il controllo “ex ante” dei flussi, che possono essere controllati se lo si vuole.
E, in secondo luogo, ritengo che questa politica debba essere prioritaria: che senso ha lanciare enormi programmi sociali e ambientali se una parte significativa di questa spesa sarà vanificata da un continuo afflusso di beneficiari senza ritorno immediato (“effetto clandestini”) e, soprattutto, se la disintegrazione conflittuale del Paese distruggerà ogni beneficio atteso.
La prima parte del suo intervento alla Fondazione Res Publica si presenta come un abbozzo di interpretazione della storia, a prima vista distante dal tema delle migrazioni. Qual è la ragione di questo approccio così indiretto al problema?
In effetti, qualsiasi discussione sulle migrazioni inizia, e di solito finisce, con i numeri. Da parte mia, ritenendo che ci sia accordo in questo ambito (400.000 afflussi all’anno, esclusi i clandestini), ho preferito modellare il problema, partendo dai concetti che lui utilizza. Da qui la necessità di un quadro di lettura che serva da base a questi concetti. Il quadro che propongo è estremamente semplicistico, ma ha il vantaggio di fornire una base di discussione: senza parlare direttamente di migrazione, ci rimanda costantemente ad essa.
Giudicate voi stessi. A grandi linee, la tela della storia ha una doppia trama. Da un lato, è una “storia della specie”, lineare, idealista, che spinge l’umanità verso la convergenza: io la chiamo Storia-Evoluzione (è la narrazione “progressiva” a cui mi riferivo poco prima).
Dall’altro lato, ci sono le “storie all’interno del genere”, cicliche, realistiche, che delineano le oscillazioni di potere tra gruppi divergenti: la chiamo Storia-Età. La migrazione odierna si trova all’incrocio di questi due approcci: è un prodotto della Storia-Evoluzione, che opera secondo le leggi della Storia-Evoluzione.
In effetti, la Storia-Evoluzione propone una versione “ottimista” delle vicende umane, che accetta la scommessa di convergere intorno alla tecno-scienza, all’economia e al “quantitativo”. Sostiene la convertibilità di tutte le cose, anche delle persone, a patto che vengano rimosse tutte le barriere al movimento.
Infine, questa dinamica permette la successione sempre più rapida di diverse modalità di convivenza: prima le comunità naturali, legate dal sangue e dall’eteronomia; poi gli Stati nazionali, nati cinque secoli fa grazie all’autodeterminazione collettiva; infine la Società degli individui, che da 50 anni rappresenta l’ultima parola sull’autodeterminazione individuale.
In contrapposizione a questa fuga fuori luogo, l’anziano storico, “conservatore” e “pessimista”, ci riporta sulla terra, dove l’uomo ha sempre vissuto in comunità delimitate, cercando sicurezza, dignità e potere. Obiettivi il cui perseguimento competitivo crea le divisioni “qualitative” di cui ho parlato poc’anzi. Questi sono di due tipi.
Da un lato, contrastano dialetticamente le nostre tre “forme” interdipendenti: ognuna si oppone alla precedente senza riuscire a eliminarla. Così, successivamente, nel tempo, si sovrappongono nello spazio, secondo formazioni cristalline tripartite.
D’altra parte, all’interno di ciascuno di questi strati, le rivalità si manifestano in nome del loro “contenuto”: cioè “culture” e “civiltà” le cui interazioni generano le ricorrenze dell'”eterno ritorno”, come nel caso, ad esempio, del movimento del pendolo tra Islam e Occidente, su entrambe le sponde del Mediterraneo.
Su questa tela si sono sviluppati due fenomeni straordinari. Una parte del genere – l’Occidente – si è assicurata il monopolio della Storia-Evoluzione, attraverso la rivoluzione scientifica, e quindi ha successivamente preso il controllo della Storia-Evoluzione, ora riassunta nei suoi conflitti interni. Da questa doppia usurpazione sono emerse conseguenze essenziali per spiegare le migrazioni.
Il pianeta si è così diviso tra un Primo Mondo, trasmettitore proattivo di modelli, e un Secondo Mondo, ricevitore passivo. Una proiezione che ha attraversato due fasi: la colonizzazione e poi la globalizzazione. La colonizzazione può essere analizzata, in ultima analisi, come l’estrapolazione del paradigma dello Stato nazionale su una tela comunitaria impreparata. Senza le necessarie fasi di transizione, questi Stati non potevano che fallire.
I nostri immigrati provengono da questi, combinando una fedeltà sopravvissuta alle loro comunità, un nazionalismo insoddisfacente perché fallito, e pratiche disfunzionali che derivano da questa duplice eredità. Per quanto riguarda la globalizzazione, essa può essere interpretata come l’esportazione della società degli individui nel Secondo Mondo, che è stato nuovamente occupato da esapini. Ma il ritiro fisico degli occidentali le ha dato lo spazio per rispondere.
Queste risposte sono primarie e secondarie. Quelle primarie sono costituite dall’Esplosione economica sino-asiatica; dal Reddito, che proviene da flussi legali (energia) o illegali (contrabbando); dalla Negazione, di cui l’Islam è il portabandiera; dal Rifiuto, espresso dai buchi neri degli Stati collassati. In altre parole, quattro risposte distinte, ma tutte alimentate da una passione comune: l’odio.
Pertanto, quello a cui stiamo assistendo è un punto di svolta della stessa portata di quello che ha portato all’egemonia occidentale. Un’egemonia di cui la globalizzazione, creando le condizioni per la sua sfida, ha segnato il culmine e l’inizio del declino. In questo modo, la Storia-Secolo riprende il controllo: il mondo, de-contenuto e ricostituito sulla base di un sistema di azione/reazione, si trasforma in un’unica caldaia, dove, in modo casuale, si scontrano spazi inconciliabili.
In questo contesto, la migrazione si presenta come una tipica reazione secondaria: la Società degli Individui e la Globalizzazione ne costituiscono le cause attive, mentre le reazioni primarie, che ho appena citato, ne confermano le cause finali.
Così, partecipa all’Esplosione economica, nella misura in cui mira a colmare la differenza di tenore di vita tra i due Mondi: l’Asia favorisce la produzione, l’Africa esercita la migrazione, solo che i flussi umani iniziano a raggiungerci nel momento in cui i posti di lavoro partono per l’Oriente. Inoltre, i migranti si finanziano con la rendita, poiché sono attratti dalla generosa protezione dello Stato sociale, senza contare le entrate illegali che accompagnano i loro movimenti (traffico di esseri umani e di droga, lavoro nero, frode sociale).
Inoltre, i nuovi arrivati, in maggioranza musulmani, sono legati – collettivamente, va da sé – al feedback della negazione, di cui l’Islam è la punta di diamante, in quanto campione mondiale della Tradizione. Anche in questo campo, la loro iniziazione ha coinciso con l’esplosione di questa religione (a sua volta legata alla globalizzazione) e con l’esportazione della sua versione “islamica”, finanziata dal reddito minerario.
Ma soprattutto, la migrazione post-coloniale rappresenta un ritorno al mittente, pieno di risentimento. Questo substrato la trasforma in un fenomeno che non può limitarsi all’economia: a differenza della precedente ondata euro-cristiana, è anche una manifestazione multiforme del ritorno, a tamburo battente e sotto forma di boomerang, della Storia-Genere, che riproduce in perpetuo, sul nostro territorio, il pentolone rovente del mondo globalizzato. Un’immigrazione senza precedenti, quindi, in parte assertiva nei confronti del Paese ospitante e in opposizione ad esso per conquistare il potere sul suo territorio.
Pertanto, affrontare la questione solo con i criteri della Storia-Evoluzione, come hanno fatto, rassegnatamente, i nostri governanti a partire dalla sentenza Gisti[2] del Consiglio di Stato (1978) costituisce, come minimo, un monumentale errore di analisi e, come minimo, un’imperdonabile vigliaccheria che, se non si interviene, ci porterà, a mio avviso, a terribili delusioni.
Si dice, tuttavia, che la Francia è sempre stata un luogo di immigrazione e che quella attuale non creerebbe più problemi oggi di ieri. Cosa ne pensa di questa affermazione?
Non sono uno storico, ma come si può sostenere, in buona fede, che la Francia è “da sempre” un “Paese di immigrazione”? Per quanto ne so, per mille anni, tra le invasioni tedesche e la fine del XIX secolo, non è successo granché. Da allora, è vero che il nostro Paese ha conosciuto almeno tre ondate di immigrazione di massa. Due sono in corso, mentre la prima, ormai conclusa, offre un meraviglioso esempio di assimilazione. Ma questo non vale per le altre due.
L’ondata iniziale, durata circa un secolo fino agli anni ’70, corrisponde a un semplice schema logico: la Francia era a corto di lavoratori e l’Europa cattolica li forniva. Si trattava di una popolazione immigrata laboriosa e discreta, non assertiva e culturalmente congeniale, che tornava in patria, ex o contro, quando non c’era lavoro. L’esperienza della colonizzazione del Nord Africa illustra questa peculiarità: mentre gli immigrati italiani e spagnoli divennero rapidamente autentici francesi, i musulmani locali si rifiutarono, anche con la forza.
Eppure sono stati proprio questi ultimi a costituire una delle componenti principali della seconda ondata. Iniziata negli anni Settanta, si è rivelata l’opposto della precedente: la logica dell’insediamento della popolazione, autoprodotta dalla legge, ha sostituito quella dell’occupazione, regolata dalla politica; i nuovi arrivati non provenivano più dalla vicina Europa ma dalle ex colonie, a maggioranza musulmana e con una grande diversità culturale.
Come avrete notato, ho concentrato la mia attenzione su questa migrazione perché, da un lato, essendo già avvenuta, ci permette di valutarne gli effetti su più generazioni (che, sorprendentemente, si rivelano in parte divergenti) e, dall’altro, continua su larga scala, ma ovattata, all’ombra della terza ondata, che tende a oscurarla.
Questa terza sequenza conserva caratteristiche comuni con la precedente, in particolare l’autoriproduzione giuridica, ma si distingue per il suo improvviso innesco a seguito delle guerre in Siria e Libia. Ciò le conferisce il carattere di crisi, sovrapponendo la logica dell’urgenza a quella del diritto.
Ha inoltre quattro caratteristiche particolari: l’estensione dell’origine oltre la cerchia coloniale, la dimensione europea dell’accoglienza, l’uso del diritto d’asilo piuttosto che del ricongiungimento familiare come giustificazione, il pagamento di un riscatto ai “barbari di frontiera” (il “sultano ottomano”, le milizie libiche) per accettare di limitare i flussi.
In effetti, come lei sottolinea, tra le varie manipolazioni a cui ricorre il “politicamente corretto” (Dio solo sa se esiste!) c’è il tentativo di convincerci che “non c’è nulla di nuovo sotto il sole” e che assorbiremo entrambe le ultime ondate con la stessa facilità della prima, poiché nulla le differenzia veramente.
Confesso che questa cecità volontaria mi lascia senza parole. Avendo girato molto il mondo, posso assicurarvi, nel caso ne dubitiate, che l’Europa e l’Africa non appartengono alla stessa area culturale, che l’Islam non è il Cristianesimo, che il colonialismo non ha lasciato solo bei ricordi, che la xenofobia, un sentimento sicuramente universale, sta crescendo insieme agli evidenti segni di diversità, ecc.
Potrei allungare l’elenco di questi luoghi comuni che non vogliamo più sentire, anche se basta uscire dal quartiere di Saint Germain-des-Prés per averne conferma. Ignoranza? Malafede? “Velleità”? Lascio a voi il giudizio, ma quello che sono certo è che, partendo da queste premesse, non risolveremo le difficoltà causate dall’immigrazione extraeuropea di massa.
Il dibattito sull’immigrazione e sul modo in cui la affrontiamo non è reso impossibile dal passato coloniale della Francia?
La dimensione postcoloniale della migrazione viene certamente citata a volte, ma credo che i suoi effetti siano ampiamente sottovalutati. Ricorderò innanzitutto – non lo facciamo mai abbastanza – l’errore criminale che ha portato ad aprire le porte del nostro Paese a popolazioni che avevano appena ottenuto l’indipendenza, a seguito di una constatazione di incompatibilità, confermata chiaramente dalla partenza dei “Pied-Noirs” e poi, ancora di più, dei “Pied-Rouges”: Da quel momento in poi, tutto è avvenuto come se avessimo costretto una coppia che aveva divorziato dopo una lunga disputa a vivere insieme, nello stesso appartamento.
I nuovi arrivati, cogliendo la palla al balzo, adottarono senza ritegno l’atteggiamento della vittima che rovescia il fatto dell’ospitalità. E il seguito ha dimostrato, ancora una volta, che “ciò che deve essere fatto sarà fatto”: come previsto, il gioco di ruolo prima riservato ai possedimenti d’oltremare si è ricostituito spontaneamente, nell’ex territorio metropolitano, ma, questa volta, a fronti invertiti.
Nella mia introduzione, descrivo gli infiniti dettagli con cui la situazione nei “quartieri” riproduce, come un balbettio da cartone animato, gli eventi e i gesti dei conflitti coloniali, attestando l’idea distruttiva di un continuum ininterrotto.
L’impatto di questa reazione è devastante, perché coincide per tre quarti con l’effetto della frattura religiosa, con il risultato che entrambi si rafforzano a vicenda. Infatti, non solo gli assiomi della fede, ma anche i ricordi non sono negoziabili. Con l’ulteriore aggravante che la Società degli individui, concentrata sulla demonizzazione dello Stato nazionale, arriva a trasformarlo nel capro espiatorio di ogni male coloniale.
Un abbandono non celato, che richiede il riconoscimento di un debito eterno della Francia, in quanto persona morale, nei confronti degli immigrati e dei loro discendenti. Per questo la natura del fenomeno migratorio è disturbata, almeno su tre livelli.
In primo luogo, i nuovi arrivati, cogliendo l’opportunità, assumono un atteggiamento vittimistico che ribalta i fatti dell’ospitalità. Diventati titolari di diritti, non condividono certo gli stessi sentimenti di gratitudine dei loro predecessori europei della prima ondata.
Per questo vediamo in alcuni uno spontaneo incitamento all’indignazione politica, sia perché è consuetudine nei loro Paesi d’origine, sia perché la remunerazione legale e illegale nel Paese ospitante è considerata un giusto compenso. Da qui anche la comparsa di questo strano essere, senza precedenti noti: Il “francofobo”.
Una seconda conseguenza del conflitto coloniale è che taglia definitivamente la strada all’assimilazione per il maggior numero di persone. Perché, in fondo, l’assimilazione significherebbe tradire i propri genitori e rinunciare a una fortificazione, portatrice della propria identità: In breve, significherebbe ammettere il proprio errore e acconsentire all’Algeria francese.
Significherebbe anche entrare a far parte di una comunità etnica che non vale più nulla, perché non smette mai di accusarsi di tutti i peccati del mondo. Meglio, quindi, sistemarsi nella comoda posizione dei perseguitati, chiedendo risarcimenti e trovando conforto nella visione immaginaria di un Paese d’origine rivalutato come un paradiso perduto.
Ma l’impatto più grave, e probabilmente il meno realizzato, è la deviazione che, a passi successivi, ci avvicina al modello razziale americano. Infatti, l’incessante musica post-coloniale impone gradualmente l’idea che i nostri immigrati non sono realmente tali: “la loro casa è la nostra casa” perché, in quanto ex sudditi coloniali, non hanno perso il diritto di essere qui o, più pericolosamente, perché il loro viaggio, come quello dei loro genitori e nonni, non è stato del tutto volontario e ha corrisposto più a un esilio, più probabilmente a scopo di sfruttamento che alla ricerca di una vita migliore.
Il che ci porta, passo dopo passo, a identificare implicitamente il destino dei nostri immigrati extraeuropei con quello dei neri d’America, discendenti di schiavi. Sulla base di questa nozione, i nostri immigrati sarebbero “cittadini di seconda classe”, che lottano per “diritti civili” che sono loro negati a causa del colore della pelle.
In questa strana prospettiva, quindi, la questione essenziale non è più l’ascesa nella scala sociale attraverso lo sforzo, come hanno fatto innumerevoli generazioni di immigrati “classici”, ma la lotta contro le disuguaglianze, la cui unica causa non è più la cittadinanza o il merito individuale, ma la “discriminazione”, una variante poco velata del razzismo e dell’apartheid.
Da qui, a livello micro, la fascinazione della seconda e terza generazione di immigrati per la cultura della ribellione afroamericana. È anche la fonte, a un livello superiore, dell’uso di parole e concetti che sono entrati nel vocabolario quotidiano mentre venivano importati dall’altra parte dell’Atlantico: ghetto, integrazione, discriminazione positiva, antirazzismo a spettro illimitato, tessera scolastica, “busing” ecc.
Ma soprattutto, una volta instillata questa lettura razziale della società, si diffonde come un virus e generalizza una modalità di percezione che consiste nel giudicare le persone in base al loro aspetto. Con le solite conseguenze nefaste: la trasformazione degli autoctoni in una maggioranza “bianca”, necessariamente oppressiva, la collocazione dei discendenti degli immigrati (o anche dei francesi dei possedimenti transatlantici) nella categoria delle “minoranze visibili”, la paradossale ricomparsa di un antisemitismo, questa volta di tipo orientale, ecc.
Così, il cerchio si è chiuso: la sovrapposizione quasi assoluta di barriere religiose, coloniali e razziali, una sull’altra, ci invita, a poco a poco, a scendere nei gironi infernali, senza rendercene conto, nonostante gli avvertimenti quotidiani che la Realtà ci rivolge. Più a lungo nascondiamo la testa sotto la sabbia, più doloroso sarà il risveglio quando dovremo tirarla fuori.
“Di fronte alla migrazione, la società degli individui non è altro che un negozio di vetro”.
Lei sostiene che, paradossalmente, la società degli individui richiede un’insolita omogeneità culturale per “durare”. Perché? Questo significa che l’immigrazione sarebbe un problema particolarmente acuto per una società di individui?
La società degli atomi si percepisce come lo stadio finale dell’emancipazione. Dobbiamo tener conto di ciò che significa: l’autorità ultima non è più la Religione, la Tradizione o lo Stato, ma l’individuo vivente, dotato di diritti uguali, inalienabili e primari, che è chiamato ipso facto a liberarsi da tutti i legami ereditati e indesiderabili.
Pertanto, la piramide dei valori si inverte: non detta più la sostanza dei comportamenti (i “contenuti” culturali), ma crea il vuoto appropriato per la loro libera scelta (i “contenuti” procedurali). Da qui – senza l’interferenza di un terzo fattore sovradeterminante la generalizzazione dei meccanismi orizzontali di trasformazione e intercambiabilità il mercato, il contratto, la comunicazione – attraverso i quali tutti i contenuti della vita individuale possono essere compatibili e la violenza si riduce a “notizia secondaria”. .
Eppure, nonostante la sua apparente coerenza, questo ideotipo non è altro che un “negozio di vetro”, particolarmente vulnerabile a tutto ciò che non è se stesso. E questo per almeno tre motivi, che costituiscono rispettive contraddizioni.
Il primo è che questa convivenza di individui è, per definizione, costantemente minacciata dal caos. Per non precipitarvi, richiede la privatizzazione delle preferenze e l’interiorizzazione dei divieti, insomma un super-io che può essere prodotto solo da una forte vicinanza e maturità culturale.
Vicinanza e maturità che, al di là dello stadio dell’organizzazione comunitaria, possono essere prodotte solo da un lungo cammino comune, guidato dallo Stato, che passa attraverso la paziente e dolorosa formazione del “cerchio della fiducia” che costituisce la Nazione, e poi il consolidamento, non meno lungo e doloroso, della democrazia: sono queste, cioè, le transizioni obbligate da cui emerge la società degli individui.
Senza dimenticare la fase dello Stato sociale che, in quanto forma modernizzata di dono, richiede un alto livello di empatia tra contribuenti e beneficiari. Da qui un primo paradosso che richiede che l’uniformità e il conformismo siano le precondizioni della diversità!
In secondo luogo, e per questo motivo, Storia-Evoluzione assomiglia a un corridoio virtuoso, al di fuori del quale non si deve uscire, o si rischia di distruggere tutto. Ma, per evitare questi “scivolamenti”, la Società degli individui ha solo un'”arma a colpo sicuro”: quella della sorveglianza del linguaggio – la “correttezza politica” – orchestrata dal sistema mediatico della comunicazione e sostenuta da un clima di paura e di colpa costantemente mantenuto. Non potendo imprigionare i corpi, paralizziamo gli spiriti, con ordini e divieti che passano al setaccio dell’eufemismo e del discorso perifrastico.
Ma quest’arma preventiva, relativamente efficace nel breve periodo, diventa obsoleta quando lo scollamento tra l’ideologia imposta e l’esperienza vissuta diventa evidente. Credo che abbiamo raggiunto il punto di rottura, che è – se vogliamo vederci chiaro, come lo vedo io – una delle cause principali dell’ascesa del “populismo” in Occidente.
Infine, un altro aspetto, certamente più subliminale. Nonostante la sua creazione, la Società degli individui è impegnata in una guerra dialettica con lo Stato nazionale, che cerca sistematicamente di screditare per addomesticarlo più facilmente. Questa negazione della continuità la conduce a un errore supremo: mentre il suo programma mira alla frammentazione generale, fa un’eccezione legittimando quelle aggregazioni molecolari, che chiama “minoranze”, a patto che riuniscano le “vittime” dello Stato oppressore per compensarle.
Alcune di queste rivendicazioni – quelle delle femministe o degli omosessuali, ad esempio – rimangono nel contesto della Storia-Evoluzione. Ma altre, come le rivendicazioni comunitarie degli immigrati ex colonizzati, vanno nella direzione opposta e mettono in pericolo la porcellana della cristalleria.
Si potrebbe immaginare che la Società degli individui, consapevole della sua fragilità, chiarisca la questione. Ma no! Intrappolata nei suoi dogmi – l’universalità dei diritti umani e l’orizzontalità del “rispetto”, a volte descritto come intersezionale… – mette tutte le sue “vittime” nello stesso sacco e fa il doppio gioco: Prima aprendo la porta a popolazioni il cui stile di vita è in discrepanza cronologica con il suo, e poi tollerando che si raggruppino sulla base di questi modelli anacronistici.
Siamo onesti. Dopo essere stati attratti in Francia sulla base dei diritti concessi dalla Società delle Nazioni, una parte significativa degli immigrati non è riconosciuta in Francia. Non solo non hanno seguito, per definizione, lo stesso percorso storico degli autoctoni, non solo sono liberi dal discorso incriminato rivolto a questi ultimi, non solo questo discorso conferisce loro, come in un’immagine speculare, lo status incondizionato di perseguitati, ma arrivano carichi di un pesante bagaglio da cui non intendono liberarsi.
Che si tratti di eteronomia, consanguineità, risentimento, nazionalismo alternativo o usi disfunzionali, tutte queste caratteristiche, ereditate dalle società di origine, sono una spina nel fianco del nostro individualismo pacificato.
In breve, gli immigrati extraeuropei introducono la loro “pienezza” collettiva laddove la società degli individui si contrappone al “vuoto” individuale. Mentre lo Stato nazionale è riuscito a creare un senso di appartenenza che gli ha permesso di accettare lo straniero alle sue condizioni (assimilazione), la società degli individui, priva di questa linea di difesa, accoglie il mondo intero sulla base di diritti simmetrici (“vieni come sei”), sperando ingenuamente che il meglio segua (integrazione).
Tuttavia, ciò che dimostra una percentuale significativa di nuovi arrivati è l’opposto: un accumulo di lacune immutabili, e addirittura in aumento per alcuni, che ci rivelano che i nostri valori universali non sono universalizzabili in questa fase (da qui la divisione).
Quel che è peggio, si sta minando il fondamento minimo della vita comune, che è la fiducia sociale, base di ogni altruismo e cooperazione al di là della cellula familiare. Da un lato, le comunità importate limitano la portata della fiducia nei legami di sangue. Dall’altro lato, i meccanismi impersonali di autoregolazione, a cui è abbandonata la società degli individui, non generano alcun senso di fiducia in quanto tale, anche se ne hanno assolutamente bisogno per funzionare: questo è un altro grande dilemma, che finora è stato superato, in un modo o nell’altro, attingendo alle riserve emotive e morali lasciate in eredità dallo Stato nazionale, che è diventato una nazione, ma che, in assenza di rinnovamento, si sta rapidamente esaurendo.
E ancora più grave è il fatto che tale coesistenza tra formazioni comunitarie e individualistiche, senza un mediatore riconosciuto, non solo mina la fiducia, ma crea spontaneamente sfiducia, perché non esiste uno stato intermedio tra i due, come ha dimostrato con forza implacabile il lavoro di Robert Putnam.
Il risultato di tutto ciò è che la nostra società è immersa in contraddizioni spaventose. Da una posizione di principio aperta a flussi esterni di ogni provenienza, richiede anche un forte conformismo culturale per non esplodere.
Lei insiste sulla “distanza culturale”, un’espressione che rimane un no-no quando si parla di immigrazione. Perché è fondamentale? Perché le differenze culturali creano necessariamente conflitti?
In effetti. Trovo che questa nozione di “distanza culturale” sia infinitamente più appropriata per comprendere ciò che ci sta accadendo rispetto al discorso ufficiale che preferisce la nozione di “diversità”, ovvero il miracolo per cui la diversità non potrebbe mai portare al conflitto.
A dire il vero, si tratta di una questione di buon senso, un criterio al quale cerco di aggrapparmi nonostante tutte le probabilità. È ragionevole credere che i contabili scandinavi e i guerrieri pashtun, gli operai britannici e i pastori somali siano capaci di formare una società, di vivere in armonia, di favorire il coinvolgimento dei loro figli? La mia risposta è “no”, ma le dottrine dominanti ci sussurrano, come il suggeritore a teatro, che dobbiamo rispondere “sì”.
A mio avviso, la “distanza culturale”, in senso lato, comprende i due tipi di differenze qualitative già menzionate: tra le tre “forme” di convivenza e tra i loro “contenuti”, culturali in senso stretto.
In effetti, il trittico infernale è oggi all’opera nel nostro Paese, confermando la sua dislocazione tripartita: una società di individui, ideologicamente dominante, in cui l’oligarchia globalizzata, che dovrebbe guidarci, è felicemente integrata; uno Stato nazionale, al posto di quello sconfitto, ma il cui simbolismo rimane molto importante per gli autoctoni e gli immigrati assimilati; infine, comunità di totale importazione, a cui rimane legata la maggioranza degli immigrati.
L’aspetto più tossico di questa conflazione è il fatto che il relitto dello Stato-nazione è diventato un “sandwich” innaturale tra gli altri due strati, teoricamente i più opposti tra loro, ma oggettivamente collaboranti per eliminare “questo senza pelo, questo rognoso, che ci ha portato tutti i mali”. Una coalizione scandalosa, formatasi a tempo perso sulla questione del rifiuto della discriminazione delle “minoranze” e dell’antirazzismo, attraverso uno spettro molto ampio, ma il cui effetto più importante è la condanna a priori di qualsiasi rinascita politica.
Per quanto riguarda la discrepanza di “contenuti”, questa si riferisce specificamente, come ho detto, alle “culture” e alle “civiltà” di cui questi tre strati sono portatori. Con la parola “cultura” intendo i modi millenari di credere, pensare e comportarsi che tengono insieme in un insieme unitario i portatori della Storia-Gentile e con i quali essi in ultima analisi si identificano. Questi codici collettivi possono non essere immutabili, ma hanno un grande potere adesivo che permette loro di resistere al tempo. Ecco perché, in effetti, l’espressione “distanza culturale” è ancora più azzeccata nella misura in cui ha le caratteristiche della ridondanza.
Anche se non può essere misurata scientificamente, questa distanza può essere confrontata. Da qui questi luoghi comuni che ci vergogniamo a pronunciare. Che, ad esempio, gli immigrati della prima ondata fossero culturalmente “più vicini” agli autoctoni rispetto a quelli delle ondate successive, perché, va ricordato, il divario è minimo all’interno della stessa area “culturale”, cioè un’area che riunisce culture che condividono la stessa genealogia e di cui l’ex Occidente cristiano, l’Islam arabo o il mondo cinese offrono esempi completi.
Inoltre, tra queste entità, le distanze possono variare. Così, in epoca moderna, l’Occidente e l’Asia, pur essendo rivali, hanno un terreno comune più ampio rispetto all’Islam arabo: lo testimonia il notevole successo dell’immigrazione sino-vietnamita.
L’Islam, essendo una religione praticata da molte persone con un background di immigrazione, è un fattore aggravante di questa distanza culturale?
Ovviamente, la questione dell’Islam, che è il portabandiera del ciclo di feedback della negazione, costituisce un asse centrale della discrepanza culturale, un tema che lei ha affrontato a sufficienza nelle sue colonne e sul quale non è necessario soffermarsi. Diciamo solo che è, a mio avviso, una religione diversa da tutte le altre, perché sfida fortemente il mondo in evoluzione, sia in Occidente, dove è stata introdotta, sia nel Secondo Mondo, dove viene presentata come l’unica alternativa di globalizzazione degna di questo nome: non è un caso che l’85-90% delle crisi calde coinvolgano i musulmani.
Giovane e dinamico, ma allo stesso tempo arcaico e fondamentalista, non è più, se mai lo è stato, l’equivalente del cristianesimo, nato dallo stesso stampo greco-latino del suo fratello rivale, lo Stato nazionale, e al quale la nostra secolarizzazione si è perfettamente adattata.
Sappiamo che l’Islam non si accontenta della fede interiore, ma richiede comportamenti unificanti, visibili nella sfera pubblica, la cui osservanza è socialmente imposta, mentre alcuni di essi – la consanguineità femminile, il divieto di apostasia – completano il recinto comunitario. Questa sovrapposizione di spazio pubblico e privato ne fa non solo un centro evidente di eteronomia collettiva, in scontro frontale con l’individualismo circostante, ma anche, su scala globale, un agente storico di prima grandezza in cerca di vendetta.
Per questo temo che l’Islam “in Francia” non sia altro che un idealismo, poiché l’Islam “in Francia” riproduce, in perpetuo, tutti gli aspetti e le frustrazioni di una fede e di una legge insoddisfatte.
La questione della “distanza culturale” non ruota forse, in ultima analisi, attorno al classico problema del rapporto tra quantità e qualità?
In effetti, sappiamo intuitivamente che, per alcune quantità “non scalabili”, tra cui la migrazione, un aumento della quantità provoca salti qualitativi. Da qui il concetto di “soglia”, che è diventato un tabù, ma che trasmette anche il senso comune: oltre una massa critica, le regole del gioco cambiano e ciò che era possibile prima non lo è più dopo. Chi può sostenere che l’arrivo di un migrante afghano in 100 villaggi di 1.000 abitanti abbia lo stesso impatto dell’insediamento di 100 afghani in uno solo di quei villaggi, o che i “benefici della diversità” obbediscano alla legge dell’efficienza crescente, per cui l’arrivo di 200 migranti nello stesso villaggio raddoppierebbe i benefici?
Quando si superano i limiti della “tolleranza” (François Mitterrand), come avviene in alcune zone del territorio, succede quello che deve succedere. Inevitabilmente si mette in moto una sequenza distruttiva – ovunque uguale. La “distanza culturale”, esacerbata dalla vicinanza fisica, genera sfiducia. Tutti si allontanano. La separazione è un dato di fatto. I confini, relativizzati ai loro limiti esterni, vengono ricostituiti, molto più rigidamente, all’interno.
Si formano centinaia di sacche che assumono l’aspetto di “pelle di leopardo”. Si scatenano lotte violente per controllarle. Le dimensioni limitate di queste enclave, il loro confinamento, la rassegnazione dello Stato aprono la strada a un’inversione della pressione sociale, a favore delle minoranze, governate dalla legge del più forte, che è il giovane uomo.
Queste minoranze sono neofite quando approfittano della disorganizzazione dell’Islam sunnita per installare la pluralità dei più vocianti e la sorveglianza panottica degli altri, secondo il buon vecchio detto “cujus regio, ejus religio[“. Sono anche delinquenti e si trovano in una posizione privilegiata per fungere da intermediari tra i produttori di droga nel Secondo Mondo e i consumatori nel Primo.
Tuttavia, ad eccezione dei Fratelli Musulmani, unica forza organizzata a livello nazionale, e dei salafiti, che operano a livello locale, queste minoranze non sono strutturate e si affidano alle forme accettate di vita sociale che sono la famiglia allargata e, quando questa si disgrega, la banda.
Dobbiamo temere, come ha detto il presidente François Hollande in conversazioni private, una possibile “scissione”?
Per il momento, la violenza, che cerca di recuperare il potere dallo Stato caduto, non si sviluppa secondo lo schema di “una coalizione contro l’altra”, ma nel modo pervasivo e anarchico della “guerra di tutti contro tutti”, caratteristica dello stato di natura, lo stadio più primitivo della fase primitiva della storia – il primitivo. Tuttavia, brevi ma frequenti sfoghi collettivi, diretti principalmente contro le forze e i simboli dell’ordine, assumono la forma di rivolte, azioni di guerriglia a bassa intensità o attacchi terroristici (che, anche quando individuali, riflettono una tendenza globale dell’Islam).
Si esce quindi dalla colonna delle “notizie collaterali” per entrare in una nuova fase, quella del temuto passaggio al “fianco a fianco” o al “faccia a faccia”. Perché l’esortazione che proviene dalle enclave finisce per formare “dispersioni”, che i pessimisti, come me, considerano possibili bombe a scoppio se non si fa qualcosa per impedirne la proliferazione.
Il tasso di assorbimento degli immigrati nella Società dell’Uomo diventa inversamente proporzionale alle loro dimensioni.
Le diaspore il termine sta entrando gradualmente nel vocabolario ufficiale – sono quelle entità di origine straniera i cui membri, anche quando hanno la nazionalità francese, rifiutano di assimilarsi o addirittura di integrarsi nel Paese ospitante, rimanendo legati alle loro comunità e ai loro Paesi d’origine, oltre che al loro stile di vita. E, oltre un certo livello, questi nuclei duri si autoalimentano: Creano flussi aggiuntivi attraverso automatismi legali, facilitano gli arrivi offrendo strutture di accoglienza familiari, creano eccedenze demografiche superiori alla media e, soprattutto, una volta raggiunta una certa dimensione, si gonfiano per ritenzione o osmosi inversa.
Sempre più autosufficienti, territorialmente compatte, forniscono alle comunità i loro ingredienti chiave su un piatto d’argento: consanguineità, trasmissione intergenerazionale, mantenimento intergenerazionale. Così, le dispersioni, una volta assemblate, appaiono come amplificatori della divergenza senza possibilità di richiamo: essendo il prodotto di una migrazione divergente, la producono a loro volta. Così il tasso di assorbimento dei migranti nella società degli individui diventa inversamente proporzionale alla loro dimensione.
Con un effetto valanga, queste cisti di autosufficienza culturale tendono a crescere senza controllo se la politica non interviene contro questo fenomeno. Questo accade da 50 anni.
Come non vedere quindi i segni di un’emergente e allarmante anticolonizzazione? Perché ciò che distingue il colono è che porta con sé il modello della sua società per riprodurlo, mentre l’immigrato classico si accontenta di cercare una vita migliore in una società alla quale deve adattarsi.
Permettetemi un’ultima osservazione. Anche l’accumulo di CO2 nell’atmosfera è una quantità che non diminuisce, soggetta ad aumenti graduali che, dopo un certo limite, hanno effetti dannosi che dobbiamo prevenire con decisioni politiche. Perché in un caso lanciamo un allarme rosso sempre più imponente, mentre nell’altro, non meno problematico, lasciamo che le cose facciano il loro corso?
Questo approccio “a due pesi e due misure” non sembra preoccupare nessuno, mentre è evidente che in entrambi i casi è in gioco la sopravvivenza di ecosistemi insostituibili.
Lei definisce l’assimilazione come una “forma di applicazione asimmetrica”. Potrebbe chiarire questa formulazione?
L’assimilazione è sia un atto che una situazione. È asimmetrica nel senso che, a differenza dell’integrazione e, a maggior ragione, di queste strane nozioni di inclusione o inclusione – che sono sinonimi di secessione – pone l’intero onere dell’adattamento culturale sulle spalle dell’immigrato, che è tenuto ad assimilarsi incondizionatamente alla sua nuova patria, ai suoi costumi e ai suoi “contenuti” culturali, e perfino alla sua storia, anche se questo lo porta in disarmonia con i suoi antenati.
Francamente, questo sforzo, a cui la stragrande maggioranza di coloro che sono arrivati con la prima ondata europea ha acconsentito, credo non sia più attuabile se non da una piccolissima minoranza che ha dimenticato di sincronizzare gli orologi. Perché, oggi, tutto cospira per escluderlo.
In che modo la nostra società rende impossibile l’assimilazione?
L’assimilazione è una forma di scelta, nel senso che il Paese ospitante, che controlla la propria politica, ha sempre l’ultima parola. Presuppone inoltre che questo Paese abbia un punto di appoggio valido, sia orgoglioso di sé e fiducioso nel proprio futuro. Il che, a nostro avviso, dipinge il ritratto dello Stato nazionale al suo apice.
Ma è caduto dal suo piedistallo: delegittimato, persino screditato dalla Società degli individui, ha perso il prestigio e lo splendore che lo rendevano una potente attrazione. L’ho già detto: la Società degli Individui, conservando dell’atemporalità francese solo ciò che si potrebbe definire negativo, ha aperto la strada alla consanguineità, mentre i matrimoni veramente misti sono sempre stati la via maestra dell’assimilazione.
Dopo essere stata condannata come qualcosa di ripugnante, l’assimilazione non mobilita più alcuna azione pubblica. Al contrario, l’obiettivo ottimale del sistema è diventato l’integrazione, che è, come ho detto, un concetto sviluppato negli Stati Uniti nel tentativo di risolvere la questione nera. In Francia, viene presentata come la formula ideale che permette agli immigrati e ai loro discendenti di stabilire un rapporto pacifico con la Società degli Individui, che viene concepita come una grande azienda, in cui è sufficiente rispettare i regolamenti interni per essere integrati attraverso l’occupazione.
Non si tratta più, quindi, di un’adesione piena e totale, ma di un contratto interattivo meno ambizioso, che permette di mantenere i legami con la cultura d’origine, di praticare senza vincoli la religione importata e di scegliere il coniuge all’interno della comunità (così come i nomi dei figli), con l’alibi dei “valori della democrazia”, riveduti e corretti a piacere.
Il problema di questa “soluzione” è che non elimina affatto le lacune non negoziabili, ma crede di superarle attraverso la legge e l’economia.
Come ho detto, è un rischio troppo grande dare per scontato questo miracolo. Inoltre, la realtà conferma i dubbi e le paure: perché l’integrazione, come la definisco io, può aver avuto molti successi, ma non è una panacea e, a mio avviso, lascia ai margini circa la metà degli immigrati e dei loro discendenti, o perché non sono qualificati per integrarsi attraverso il lavoro o perché non possono o non vogliono farlo.
È quest’ultima categoria a costituire i nuclei intransigenti delle diaspore, sovrarappresentati tra i giovani, gli uomini, i musulmani, i delinquenti, e concentrati in enclave dove queste minoranze determinate prendono il potere, in attesa di giorni migliori. Perché, se lasciamo che le cose vadano in questa direzione, temo che questi gruppi, favoriti dall’espansione spontanea delle diaspore, si rafforzeranno a spese degli integrati e, in larga misura, degli assimilati.
È profondamente pessimista?
La mia vita personale e professionale si è svolta interamente all’estero, in professioni – diplomazia, informazione – dove è vietato prendere i nostri desideri per la realtà. Una cosa almeno mi è stata insegnata: il fallimento generale e spesso tragico degli schemi “poli”, cioè lo schema imposto in ultima analisi dalla recente immigrazione in Francia. Volevo solo esprimere la preoccupazione ispirata da questa lunga esperienza.
Credo infatti che, dopo 50 anni di afflusso massiccio di popolazioni provenienti dal secondo mondo, l’onestà intellettuale ci obblighi a renderci conto che i flussi migratori hanno creato infinitamente più problemi di quanti ne abbiano risolti, anche nel campo dell’economia, che spesso viene addotta a loro giustificazione. In queste circostanze, è quantomeno sorprendente che, solo per soddisfare un’ideologia, le politiche pubbliche si limitino ad affrontare le conseguenze, senza mai osare cercare le cause.
È davvero un atteggiamento serio pretendere di agire contro la chiusura comunitaria, la segregazione, l’islamismo, la divisione, la secessione e non so cos’altro, senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità di limitare la migrazione (“rolling back”) e di ridurre gli “stock” diasporici a cui ha contribuito (“rolling back”)?
Nel mio discorso ai membri della Fondazione Res Publica, ho presentato una trentina di misure in queste due direzioni. Queste proposte ci portano certamente fuori dal contesto dei piccoli compromessi e dei grandi esborsi attualmente praticati, con l’obiettivo non dichiarato di tenere il coperchio della pentola chiuso il più a lungo possibile. Tuttavia, non hanno una particolare originalità e sono perfettamente realizzabili.
Il loro “svantaggio”, tuttavia, è che devono risalire la corrente del magnifico fiume della Storia-Evoluzione per tuffarsi nuovamente nelle pericolose onde della Storia-Evoluzione. Una svolta eroica che i nostri leader, come i loro predecessori, non sembrano pronti a compiere.
Come dice il proverbio, la storia giudicherà, ma temo che il suo verdetto sarà piuttosto duro.
Pierre Brochand intervistato da Eugenie Bastier
Fonte: fondation-res-publica.org
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