Scrivere e leggere non è un passatempo come tanti altri, è un atto di salvaguardia, quasi di conservazione della specie umana
I genitori ti insegnano ad amare, ridere e correre. Ma solo entrando in contatto con i libri, si scopre di avere le ali.
(Helen Hayes)
Questo potrebbe essere uno degli ultimi articoli che pubblichiamo in quanto se a fine anno non raggiungiamo un numero sufficiente di abbonamenti saremo costretti a chiudere, nessuno è indispensabile e senza la volontà popolare di dare seguito al lavoro svolto non possiamo che rispettare il giudizio della gente.
Staff Toba60
Siamo tra i più ricercati portali al mondo nel settore del giornalismo investigativo, capillare ed affidabile, ognuno di voi può verificare in prima persona ogni suo contenuto consultando i molti allegati (E tanto altro!) Abbiamo oltre 200 paesi da tutto il mondo che ci seguono, la nostra sede è in Italia, fate in modo che possiamo lavorare con tranquillità attraverso un supporto economico che ci dia la possibilità di poter proseguire in quello che è un progetto il quale mira ad un mondo migliore!
Dal desiderio di scrivere al bisogno di leggere
Oggi scrivere e leggere non sono più semplici passatempi, ma atti di sopravvivenza. In un mondo in cui lo schermo divora l’attenzione e dissolve il pensiero, la scrittura rimane uno degli ultimi rifugi della realtà e la lettura uno degli ultimi gesti in grado di risvegliare una mente assopita. Se ancora scriviamo, è per preservare ciò che si sta perdendo. Se ancora leggiamo, è per preservare noi stessi. Perché un popolo che smette di leggere dimentica se stesso e un popolo che dimentica se stesso lascia che altri scrivano la sua storia.

Scrivere, oggi, è quasi un sacrilegio, poiché è diventato un atto di resistenza a mani nude contro l’ipnosi collettiva, come un sussulto di lucidità in un mondo in cui le pupille, dilatate dallo schermo, si lasciano riempire di immagini come oche digitali. Si potrebbe credere che in questo mondo moribondo la scrittura non abbia più posto, che la parola riesca a malapena a reggersi in piedi di fronte alla grande anestesia connessa. Eppure, è proprio ora che la scrittura diventa indispensabile, perché la realtà non è scomparsa, ma è stata solo ricoperta da un velo di pixel che molti ormai scambiano per un orizzonte.
Internet, questo oracolo instabile, ha trasformato le masse in consumatori di certezze predigerite, voraci eppure affamate. Cliccano, scorrono, commentano come si tossisce, per riflesso, senza mai inspirare il minimo soffio di spirito critico. In questo teatro di ombre luminose, l’attenzione è diventata una preda, la sfumatura un crimine e la conoscenza uno sforzo ritenuto sospetto. A che serve leggere, a che serve imparare, quando l’opinione istantanea funge da diploma per la maggioranza?
E mentre i flussi riversano il loro brodo mentale, le voci indipendenti, le uniche ancora abbastanza libere da dire qualcosa di diverso dal discorso sovvenzionato e asettico, scrivono in un deserto dove l’oasi è invisibile agli occhi dei passanti. Agli autori viene chiesto di sopravvivere senza essere letti, di creare senza essere sostenuti, di illuminare senza che nessuno apra gli occhi. Eppure, nonostante la mancanza di sostegno, dobbiamo continuare ad allertare, a spiegare, a cercare di aprire delle brecce. Non per vanità, ma per dovere.
Perché scrivere non è un passatempo come tanti altri, è un atto di salvaguardia, quasi di conservazione, della specie umana. Ogni frase strappata al frastuono è un richiamo a ciò che significa pensare, sentire e soprattutto discernere. Scrivere significa rifiutare che il linguaggio diventi un semplice strumento di manipolazione emotiva. Significa tenere la porta aperta a coloro che, un giorno, si risveglieranno dall’incantesimo e cercheranno qualcosa di diverso dal pensiero algoritmico preconfezionato.
L’autore indipendente è forse oggi l’ultimo baluardo, colui che rifiuta di prestare fedeltà alle narrazioni egemoniche, colui che continua a credere che la verità, anche se frammentaria, meriti ancora di essere perseguita. Non guadagna nulla a continuare… ed è proprio per questo che deve continuare. Perché questo mondo saturo di informazioni manca crudelmente di individui capaci di dire “voglio sapere e capire”.
Quindi sì, scrivere è ormai anche un atto di insubordinazione. È diventato un gesto di insolenza contro il torpore generale, un atto di fede nell’intelligenza umana in un’epoca in cui essa viene volentieri delegata alle macchine o ai guru dei media. Ma è nei momenti in cui tutto sembra perduto che la penna ritrova il suo potere originario di incrinare la facciata, di aprire una strada, di ricordare alla realtà che non è morta. Scrivere, oggi, non significa più parlare alle masse assopite, ma parlare a coloro che non hanno ancora rinunciato.
Ma allora, in questo incubo distopico, cosa potrebbe risvegliare questo Paese che un tempo era una fucina intellettuale, dove il confronto delle idee valeva più dell’ebbrezza del divertimento? Cosa potrebbe spingere i francesi a tornare a voler capire piuttosto che consumare, a voler sapere piuttosto che credere, a perpetuare questa cultura che hanno imparato a percepire come antiquata, mentre invece è l’unica cosa che li protegge?
La risposta non è né semplice né comoda, perché ciò che serve è un vero e proprio shock! Non un cataclisma esterno, ma uno shock interiore. Quella scossa intima che fa improvvisamente apparire il vuoto dietro le illusioni digitali, la povertà dietro la saturazione e la menzogna dietro la facilità. Ma finché l’illusione regge, la mente dorme. A volte basta però intuire la frattura perché il desiderio di imparare si riaccenda. L’ignoranza non si combatte con un decreto, ma con la mancanza di senso.
Sarebbe necessario un ritorno al gusto dell’esigenza. Questa parola oggi fa paura perché evoca lo sforzo, la perseveranza e la volontà, tre valori che il sistema dominante si ostina a sostituire con la rapidità, il comfort e soprattutto la passività. Ma senza rigore non c’è libertà interiore. Perché alla fine non è la tirannia che si impone, è l’indolenza che la invita.

E soprattutto, bisognerebbe riscoprire il piacere di essere intelligenti. Sì, il piacere. Non l’arroganza, non l’elitarismo, ma il semplice piacere di comprendere un mondo che cerca di privarci di sé stesso, di rompere quella nebbia che trasforma tutto in opinioni vaghe. Il piacere di leggere un autore che ti apre una strada che non conoscevi, che ti offre informazioni a cui non avevi accesso. O semplicemente quello che mette in parole i tuoi mali.
Questa è una gioia che nessun flusso digitale può offrire. Perché un autore non ti bombarda di informazioni, ma ti accompagna, ti trasporta, ti sposta dal tuo centro. Leggere non significa ingurgitare contenuti, ma attraversare un territorio mentale. E in questo territorio, a volte capita che, all’improvviso, una frase ti colpisca come un raggio di luce in una stanza rimasta a lungo al buio. Un’immagine, un’idea, un ragionamento… Insomma, qualcosa che non avevate mai considerato o che intravedevate senza osare formularlo.
Questa scoperta non ha nulla di un miracolo passivo, poiché richiede una presenza, una disponibilità e un’attenzione rare in un mondo saturo di notifiche. Ma è proprio questo che la rende preziosa. L’autore non impone nulla, ma suggerisce, propone e traccia una breccia nel muro delle vostre certezze, e solo voi decidete se attraversarla. È qui che risiede il vero piacere della vita, in questa improvvisa apertura che non vi infantilizza, ma vi arricchisce.
E poi arriva quella felicità ancora più sottile, quasi intima, di avere per una volta un pensiero che appartiene solo a te. Non un’opinione assorbita dal flusso delle notizie, non una reazione prefabbricata, ma un pensiero autentico, plasmato dallo sforzo, affinato dalla riflessione e soprattutto vivo, perché nato dentro di te.
Bisognerebbe riuscire a ridare valore alla libertà di pensiero. E finché la cultura rimarrà un passatempo facoltativo, continuerà a essere sottovalutata. Deve tornare a essere un riflesso di sopravvivenza, uno strumento di difesa come atto di sovranità personale. E in un Paese in cui tutti parlano di libertà, sarebbe ora che qualcuno ricordasse che la prima di esse è la lucidità.
Infine, nulla cambierà finché i francesi non avranno compreso che l’ignoranza costa molto cara. Non in termini numerici, ma in termini di destino. Perché l’ignoranza non è mai gratuita, poiché si paga con la perdita di lucidità, con scelte confiscate e con voci soffocate. A volte si crede che non sapere protegga, che evitare la complessità dia sollievo, che abbandonare la riflessione permetta di “vivere tranquilli”. Ma è una tranquillità da ostaggio, pacifica solo perché ignoriamo l’altezza dei muri che ci circondano.
Il vero prezzo dell’ignoranza è ciò che essa porta via, prima ancora che ce ne rendiamo conto. Mi riferisco alla capacità di agire, giudicare e anticipare. Un popolo che non conosce ciò che lo plasma non ha più il controllo su ciò che lo aspetta. Diventa un navigatore senza mappa, passeggero di una nave governata da altri, di cui non distingue nemmeno più la direzione. L’ignoranza non impedisce di andare avanti, è molto peggio perché impedisce di scegliere dove andare.
Questo costo è invisibile. Non compare su un estratto conto. Si misura nelle rinunce silenziose, nel progressivo abbandono del pensiero critico, nella delega della propria volontà, nella rassegnazione a credere che “tanto è tutto troppo complicato”. Una società che smette di istruirsi non è solo una società più debole, ma soprattutto una società più manipolabile, più docile e più permeabile alle narrazioni preconfezionate. Non per malizia naturale, ma per mancanza di difese interiori.
Perché la vera libertà non si proclama a gran voce, ma si costruisce. E si costruisce innanzitutto attraverso la conoscenza. L’ignoranza, invece, è un terreno fertile per tutte le dipendenze: dipendenza dai discorsi, dipendenza dalle illusioni, dipendenza dalle autorità – politiche, tecnologiche, culturali – che non chiedono altro che pensare al posto nostro. Non è un complotto, è la naturale tendenza di ogni struttura di potere quando nessuno la controlla.
È qui che si gioca il destino. Non in un fragore spettacolare, ma in questo progressivo scivolamento in cui gli individui smettono di essere attori per diventare spettatori, poi comparse. Un popolo che non conosce la propria storia, che non esige di comprendere il mondo, che non difende le sfumature, finisce meccanicamente per subire lo scenario scritto da altri.
Eppure questo destino non è affatto inevitabile. A volte basta una presa di coscienza, come la brutale intuizione che l’ignoranza costa più dello sforzo, che l’oscurità pesa più della conoscenza e che la rinuncia intellettuale finisce sempre per pagarsi con la perdita della libertà. Quando questa evidenza apparirà chiara, anche ai più ottusi, allora qualcosa cambierà finalmente. Perché i destini collettivi iniziano sempre con le insurrezioni silenziose di alcune menti che rifiutano di lasciarsi dettare il proprio.

L’ignoranza non è uno stato, ma una capitolazione. E il giorno in cui questo Paese capirà che per risollevarsi bisogna prima imparare, solo allora il destino potrà essere riscritto. Perché questa gabbia di cui parlo può prosperare solo sulla passività, sulla distrazione generale e sulla docilità ottenuta attraverso la saturazione sensoriale. Il giorno in cui tutti capiranno che l’ignoranza non è neutralità, ma un terreno conquistato da altri, solo allora nascerà il desiderio di uscirne.
Quindi sì, ci vorrebbe un risveglio. Forse molto lento, forse silenzioso, ma inevitabile. Perché ogni popolo che smette di pensare finisce in ginocchio e ogni popolo che ricomincia a pensare spezza le catene senza nemmeno accorgersi che cadono.
Ma questo risveglio non verrà dall’alto. Non nascerà da un discorso, da una riforma o da un miracolo. Inizierà là dove ogni vero cambiamento mette radici, ovvero nella mente dell’individuo. In quel momento intimo in cui si decide di non subire più il mondo, ma di comprenderlo finalmente. In quella scelta semplice, quasi umile, che consiste nel riconnettersi con la conoscenza piuttosto che con la distrazione.
Riprendere in mano la propria vita non significa ribaltare tutto, ma iniziare a risollevarsi. Uscire dall’oscurità che ci circonda, rifiutarsi di essere una comparsa nella propria esistenza. E per farlo, non c’è alcun segreto: bisogna nutrire lo spirito. Non con frammenti effimeri, non con opinioni prefabbricate, ma con opere pensate, costruite e incarnate.
È qui che gli autori indipendenti diventano fondamentali. Sono i guardiani solitari di un mondo saturo, gli ultimi artigiani di un sapere non diluito, non formattato, non filtrato dagli interessi che governano le narrazioni dominanti. Sostenerli non è compiere una buona azione, è darsi la possibilità di accedere a voci autentiche, libere, umane, voci che possono ancora trasmettere, illuminare, scuotere.
Acquistare i loro libri significa compiere un atto di tranquilla sovranità, decidere cosa mettere nella propria testa, scegliere la profondità piuttosto che la superficialità, offrire alla propria intelligenza qualcosa di cui respirare. Significa ritrovare, pagina dopo pagina, il piacere dimenticato di sentire i propri pensieri rafforzarsi, affinarsi e dispiegarsi. Il piacere di capire che la conoscenza non è un lusso, ma una boccata d’aria vitale.
Quindi sì, il risveglio arriverà sicuramente. Forse in modo graduale, forse troppo lentamente, ma arriverà per tutti coloro che avranno deciso di riaprire un libro, di ascoltare un pensiero diverso, di avvicinarsi a ciò che ancora non conoscono. Questo Paese non è mai stato a corto di menti brillanti, è solo mancato loro un motivo per riaccendersi.
E comprendete bene che questa ragione inizia nel modo più essenziale possibile, con un libro. Un libro appoggiato su un comodino, che aspetta di essere aperto una sera in cui finalmente ci si rifiuta di addormentarsi all’ombra degli altri. Questo gesto sembra minuscolo, quasi insignificante, ma in realtà è vitale e sta nel palmo di una mano. Eppure può trasformare tutto il corpo, tutto il corso di una vita, e basta solo aprirlo.
Perché è proprio lì che inizia l’uscita dalla nebbia. In questo gesto semplice, decisivo, che non ha nulla di eroico in apparenza, ma la cui portata è immensa. Aprire un libro e aprirlo davvero, con attenzione, con fame, è già respirare in modo diverso, è già iniziare a vedere oltre la nebbia che ci avvolge. Non è un atto spettacolare, eppure è un atto vitale. Un atto che segna l’inizio della riconquista. Un atto che riaccende la luce e la vostra vita.
Quindi, in questo periodo natalizio, che ognuno possa ritrovare il gusto di regalare ciò che illumina piuttosto che ciò che distrae. Che i libri possano tornare al loro posto sotto l’albero, come promesse di libertà e di evasione. Possano essi riaccendere l’intelligenza, la curiosità e quel soffio interiore che la nostra epoca soffoca. E che questo Natale porti finalmente a tutti un po’ di quella luce che si legge, si condivide e si trasmette.
Phil BROQ.
Fonte: jevousauraisprevenu.blogspot.com
SOSTIENICI TRAMITE BONIFICO:
IBAN: IT19B0306967684510332613282
INTESTATO A: Marco Stella (Toba60)
SWIFT: BCITITMM
CAUSALE: DONAZIONE




