È un mondo in cui la dittatura non è più imposta, ma comprata, consumata e gradita
Al termine di ogni scritto che pubblico mi domando sempre se è stato utile a smuovere qualcuno dal suo torpore quotidiano, la gente non legge più libri e segue solo la televisione, non si informa ma consuma le notizie, via WhatsApp, Telegram, Facebook o X nei momenti interlocutori tra un Tik Tok ed un altro.
Scopro che il 90% di chi accede sul mio portale staziona per una media di 1’30” secondi, li dove ogni singolo articolo ha mediamente oltre 20 pagine, allegati esclusi, (che sono la radice occultata di ciò che è il suo contenuto)
Dedico tutti i giorni 12 ore per la ricerca e la stesura di servizi che implicano di fatto l’essenza di tutto ciò che accade intorno a noi e mi piacerebbe ogni tanto trovare la mia posta vuota senza i mille insulti che ricevo con puntualità svizzera……..i grazie come sapete sono sempre bene accetti, ma di questi tempi hanno sempre più le sembianze di quelle che chiamano Fake News. 🙁
Toba60
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In questo paese
In questo Paese, il governo è una casta di gestori illegittimi di un cadavere in prestito. Non amministra più un Paese, ma gestisce un affitto. Non governa più, si aggrappa a tutto. Il suo unico talento è riempire il vuoto con parole vuote. Ogni frase che pronuncia è un tradimento. Non ha più una visione, non ha più un progetto di civiltà né un legame con il popolo.

Governa solo per mantenere l’illusione del controllo e, soprattutto, i suoi privilegi. La sua unica priorità è restare al potere a ogni costo. E nel mondo in cui questo governo ci ha intrappolato, la corruzione non è una deriva, ma la sua matrice. La sua illegittimità non deriva più dalla frode, ma è morale, spirituale ed esistenziale. Questo governo non è composto da capi di Stato, ma da parassiti in giacca e cravatta, innestati sulla pelle del popolo, che lo succhiano in nome di principi che calpestano ogni giorno.
In questo Paese la giustizia è morta, ma sopravvive la menzogna meglio vestita del regime. Tutto ciò che rimane sono i tribunali, dove si recita una parte, dove i potenti sfuggono alle leggi che scrivono e i deboli vengono condannati per aver cercato di sopravvivere. Il giudice non è più una figura di equilibrio, ma un esecutore servile di una legge sempre più tecnocratica, opaca e incomprensibile. I cittadini non credono più nella giustizia, e a ragione. Perché hanno visto che l’ingiustizia non conosce ferie. È rapida, brutale e costante. La giustizia, invece, è lenta, distante e spesso assente. Un buon cittadino non è colui che viene protetto, ma colui che non si mette in mezzo.
In questo Paese, la polizia è diventata il braccio armato di un ordine che non ha alcuna legittimità. Si autodefiniscono “mantenimento dell’ordine”, ma di che tipo di ordine stiamo parlando? Di disuguaglianza sotto il santuario? Di saccheggi legali? Di violenza gratuita contro i manifestanti e di lassismo nei confronti di tutti i delinquenti? La polizia non protegge più il popolo, ma il regime. È diventata il muro tra l’impostura e la rivolta. Questo non significa che tutti i poliziotti siano corrotti, ma che la loro missione lo è diventata. E che chi obbedisce ciecamente a ordini ingiusti diventa, di fatto, complice di un sistema che disprezza la libertà e schiaccia i più deboli.
In questo Paese, l’economia non è altro che la schiavitù del debito. Il debito non è più uno strumento, ma una catena. Non si contrae più, ma si subisce. Sottomette gli Stati ai mercati, i popoli alle banche e gli individui ai tassi di interesse. La cittadinanza è stata sostituita dal credito, la sovranità dalle agenzie di rating e il lavoro dalla speculazione. Il lavoratore moderno non è libero, è sfruttato come un limone tra due mensilità. E chi tiene i fili non ha nemmeno una bandiera. Sono apolidi di lusso che sfruttano qui, vivono lì e nascondono i loro soldi altrove. Nel frattempo, lo Stato continua a sorridere mentre loro vendono ogni pezzo della casa di famiglia e tengono per sé i gioielli più belli da condividere con gli amici.
In questo Paese, i media sono i cani da guardia dei ladri e dei delinquenti. Non svolgono più il loro ruolo di contrappeso. Sono un’estensione del potere. Ripetono, amplificano e censurano. Scelgono le parole, i silenzi, i nemici da distruggere e gli alleati da glorificare. Non dicono la verità, ma costruiscono una versione accettabile della realtà. Non cercano di capire, ma di far obbedire. Il giornalismo è morto. È stato sostituito dalla comunicazione di crisi permanente.
In questo Paese l’immigrazione viene sfruttata e amplificata fino a diventare esplosiva. Siamo realisti. Il problema non sono solo gli immigrati, ma anche l’uso politico che ne facciamo. L’immigrazione di massa e incontrollata è un’arma. Viene usata per rompere gli equilibri culturali, annegare le persone nella confusione identitaria, imporre la paura e giustificare un maggiore controllo. Diventa così non un rifugio, ma un cavallo di Troia. Chi arriva non ha nulla e prende il posto di chi ha già molto poco. È la guerra dei poveri, orchestrata dai ricchi. E l’odio, accuratamente alimentato da chi sostiene di volerlo evitare.

In questo Paese, il popolo è smembrato, frammentato, intrattenuto nell’oblio. Il popolo non è più uno, è diviso, stratificato, atomizzato. Ogni gruppo contro l’altro. I poveri contro i non poveri, i giovani contro gli anziani, i nativi contro gli immigrati, le donne contro gli uomini. La divisione è totale, abilmente mantenuta. Mentre alcuni si accusano a vicenda, altri saccheggiano in pace. E il resto? Dorme sul suo divano davanti alla TV a credito. Ipnotizzati dagli schermi, storditi dall’intrattenimento, lobotomizzati dagli slogan pubblicitari, non pensano più, sentono, consumano, fuggono. Non hanno spina dorsale, ma solo un tubo digerente e una connessione a Internet.
In questo Paese i giovani sono alienati dal vuoto. Avrebbero potuto essere fuoco, ma sono diventati fumo. Cresciuta con l’ossessione dell’io, dell’istantaneo, del rifiuto dello sforzo, non pensa più al futuro. Vuole tutto, subito, senza chiedersi perché. Si nutre di una dieta a base di pseudo-ribellione sponsorizzata, attivismo di superficie e ideologie assurde che negano la realtà. Non legge, non discute e non costruisce più. È connessa, ma sola; istruita, ma ignorante; libera, ma prigioniera. Le è stata tolta la speranza offrendole il conforto.
In questo Paese, gli anziani hanno voltato le spalle alla sopravvivenza. Erano i costruttori. Sono diventati i contabili della loro fine. I loro unici orizzonti sono la pensione, la salute e la tranquillità. Hanno rinunciato a trasmettere, per paura di essere giudicati, per stanchezza o per comodità. La loro memoria non serve più ad avvertire, ma solo a ricordare. Guardano il mondo crollare, chiedendosi se saranno morti prima dell’esplosione finale. E spesso chiudono gli occhi, si tappano le orecchie e si chiedono perché i loro nipoti vivono nel caos.
In questo Paese, le classi medie sono i nuovi schiavi consenzienti. Pagano tutto, sopportano tutto e non dicono nulla. Credono solo in una cosa: il diritto alla vacanza. Due settimane in estate, una in inverno, perché è l’unica trascendenza che gli è rimasta. Non sognano più, contano. Non si risentono più, si adattano. Non educano più i figli, li tengono occupati. Sono troppo ricchi per arrendersi, troppo poveri per cambiare. Sono la spina dorsale del sistema e si rifiutano di vedere che gli stiamo già spezzando la schiena.
In questo Paese, lo sanno. Eppure non succede nulla. Questa è la tragedia di questo Paese. E la gente lo sa, ma tace. Sa che il suo governo non è altro che una vetrina per un potere che non decide più nulla, che una succursale di multinazionali e banche senza volto i cui azionisti vivono altrove, pensano altrove e investono altrove. Sa che la “democrazia” non è altro che un rituale, una liturgia vuota, dove la gente getta il proprio voto come si getta un fazzoletto usato. Senza speranza, senza illusione. Perché la gente non è solo ignorante e ingenua. Ogni giorno vedono la miseria che cresce sotto le cifre falsificate della crescita. Sentono le parole dei loro leader, ventriloqui del nulla, il cui unico talento è usare il linguaggio per mascherare il furto, mascherare la violenza e rendere tollerabile l’inaccettabile. Sa anche che i giudici sono le puttane del sistema, i poliziotti sono cani avidi e i media sono le catene che imbavagliano i suoi pensieri.
In questo Paese si pensa che ci sia paura, pura oppressione. Ma non è così. La polizia colpisce, sì, e a volte fino allo spargimento di sangue, ma colpisce come un cane morso dalla rabbia, senza un piano, senza un pensiero. Il popolo potrebbe insorgere, come molti hanno fatto nel corso della storia. Ma non lo fa. Si lamenta, brontola, scherza cinicamente sui social network, poi torna alla sua birra, alla sua serie, alla sua denuncia senza conseguenze. Allora cosa sta aspettando? Sta aspettando il collasso totale, il saccheggio finale, il tonfo degli stivali sul selciato? Stanno aspettando che la guerra che hanno a lungo osservato da lontano venga a bussare alla loro porta con i droni e la carestia? O stanno aspettando che lo Stato, che li ha traditi, li affami fino a far sì che la fame sia più forte della rassegnazione?
In questo Paese, anche gli attori del sistema giudiziario sanno di avere il compito di punire i deboli e di sbiancare i potenti. La polizia sa che non ha più il compito di proteggere, ma di eseguire gli ordini, non la legge. Al punto da distruggere il futuro dei propri figli. La giustizia è una merce, la sicurezza un’illusione e la libertà un ricordo. Eppure nulla si muove. Eppure la gente vede le industrie chiudere, i posti di lavoro trasferirsi, i villaggi svuotarsi e le città frammentarsi. Sa che il futuro è altrove o da nessuna parte. Sa che l’immigrazione di massa non è un fenomeno, ma una strategia. Un flusso perpetuo mantenuto non per ragioni morali, ma per ragioni economiche, per deprimere i salari, dividere le classi lavoratrici e deviare la rabbia.

In questo Paese, tuttavia, la gente non sta ancora reagendo. Perché è stato spezzato. Perché è stato spezzato. Sono rimasti solo i riflessi. Nessuno slancio vitale, nessuna sacralità, nessun onore collettivo. E nel frattempo, chi è al vertice saccheggia sempre di più e si rimpinza fino all’eccesso. Non servono l’interesse generale, ma se stessi. Vivono in un altro mondo, letteralmente, al riparo delle leggi che scrivono per il popolo. Non vedono più il popolo come un corpo, ma come una mandria da mungere, dividere ed esaurire. E la cosa peggiore è che hanno ragione a non temerlo. Perché queste persone sanno… e non fanno nulla.
In questo Paese, è lì che emerge l’abisso più profondo. Non di oppressione, ma di accettazione. Non è colpa del tiranno, ma della fatica del cuore. Queste persone non sono dominate, sono semplicemente svuotate. Le città stanno collassando sotto i debiti. Le campagne si stanno svuotando come un cadavere. Le scuole sono polveriere di ignoranza. Quindi cosa serve? Una scintilla? Una violenza estrema? Una rivelazione? Forse… O forse è già troppo tardi. Che questo popolo non si solleverà mai. Che altri arriveranno, forse più giovani, più affamati, più crudeli, per prendere la loro città, la loro casa, il loro posto. Ma nel frattempo, lui rimane lì. Si siede. Rassegnato. Uno spettatore della propria fine.
In questo Paese, questa è senza dubbio la tragedia moderna unita alla negazione. Questa estinzione in diretta, questa sottomissione volontaria di un popolo che sta morendo… in silenzio. Ma a cosa serve un popolo che non vuole più difendersi? A cosa serve un uomo che sa di essere umiliato, schiacciato, privato del suo pane e della sua dignità, e non si tira indietro?
C’è stato un tempo in questo Paese in cui l’umiliazione generava rabbia. Quando l’ingiustizia svegliava le persone. Oggi le addormenta. L’ingiustizia è diventata la norma, la corruzione una tradizione, il tradimento una funzione. Non le combattiamo più, ci abituiamo, le integriamo. Peggio ancora, li giustifichiamo. Perché l’ideale doveva essere ucciso per creare la loro prigione. Questo è ciò che hanno fatto coloro che detengono il potere. Hanno soppresso la storia, svuotato le parole, ridicolizzato la rivolta, demonizzato la rabbia, sterilizzato la virilità, cancellato le radici. Hanno venduto la memoria per la comodità, la cultura per lo schermo, la coscienza per la distrazione. È nato l’Uomo Nuovo! È flessibile, sradicato, obbediente, liquido e, soprattutto, orgoglioso di esserlo.
In questo paese, non è più Orwell. Non è Huxley. È molto peggio. Ben oltre l’incubo. È un mondo in cui la dittatura non è più imposta, ma comprata, consumata e gradita. E nel frattempo, anche coloro che dovrebbero vigilare dormono. Gli intellettuali scrivono per non dire nulla o per alleggerirsi la coscienza; gli artisti vendono l’anima al mercato; i giornalisti ripetono le narrazioni dei poteri forti come pappagalli lobotomizzati; i “militanti” difendono ormai solo cause narcisistiche, frammentate, senza una visione d’insieme, ossessionate dall’io, mai dal noi. E queste persone non sanno più nemmeno cosa sia il bene comune.
In questo Paese, l’individuo crede ancora di avere dei diritti, mentre ha perso ogni potere. Crede ancora di avere delle scelte, mentre in realtà gli vengono negate. Credono di vivere in una democrazia, quando ogni decisione cruciale viene presa senza il loro consenso, in circoli chiusi dove il denaro, gli interessi strategici e l’ideologia sostituiscono la volontà del popolo. E se c’è una rivolta, viene immediatamente recuperata, svuotata della sua sostanza, trasformata in folclore da una “marcia”, un hashtag, un momento di indignazione rapidamente dimenticato, sostituito dal prossimo scandalo, dal prossimo scalpore, dal prossimo episodio.
E allora? Tutto è perduto? Il popolo è condannato a vegetare così, a spegnersi lentamente, a sprofondare in una forma morbida di felice schiavitù? Forse sì. O forse no. Forse sotto la cenere c’è ancora una brace. Debole, rosso, ma vivo e incandescente. Perché quello che resta da fare in questo Paese è sapere come tornare a essere “pericolosi” per chi è al potere. Non basta saperlo, bisogna volerlo. E non basta volerlo, bisogna osare. Chi governa ha solo paura di un popolo che smette di credere che le sue catene siano normali. Ecco cosa resta da fare, se queste persone vogliono smettere di sopravvivere e iniziare a esistere e a vivere.
Ma ci vorrà molto di più della semplice rabbia per riaccendere quelle braci. Ci vorrà coraggio. Verticalità. Panache. Abbiamo bisogno di una nuova forma di fede, non religiosa, ma esistenziale. Dobbiamo riscoprire ciò che l’epoca è decisa a uccidere. Lo spirito di sacrificio, la volontà di potenza, l’amore per ciò che è vero, bello e giusto. Abbiamo bisogno di costruttori, non di manager. Anime di ferro in un mondo di plastica. Ma questo risveglio non verrà da chi ha tutto. Non verrà dalle élite, dalle istituzioni o dalle classi medie assopite. Verrà, se proprio deve venire, da chi non ha più nulla da perdere. Gli umiliati. Quelli lasciati indietro. Gli emarginati. Quelli che vengono insultati dalle tribune televisive. Quelli che non hanno letto i libri ma che sentono, nel profondo, che qualcosa non va bene. Quindi forse… Forse queste persone risorgeranno.

E a coloro che chiedono sempre “cosa posso fare?” senza muovere un dito. Ai codardi, ai tiepidi, ai non morti. A coloro che continuano a dire: “Va bene fare l’osservazione… ma cosa possiamo fare davvero?”. A coloro che hanno ancora troppo da perdere per lottare, ma hanno già perso troppo per sperare. Vogliono soluzioni come voi volete un’app: semplici, pulite, senza sforzo, indolori.
Ecco quindi la risposta: boicottaggio, disobbedienza civile, ritiro di contanti dalle banche, rifiuto di utilizzare piattaforme di spionaggio, smettere di alimentare coloro che disprezzano e odiano il popolo. Significa scioperare contro il sistema. Riprendersi la propria vita, la propria terra, i propri figli, la propria storia. Costruite le vostre reti, i vostri risparmi, le vostre roccaforti. Rifiutate i falsi rappresentanti del popolo, smettete di aspettare il loro permesso di esistere. E soprattutto, preparatevi. Mentalmente, fisicamente, strutturalmente. Non abbiamo bisogno di una rivolta da poltrona, ma di una riconquista totale. Smettere di fare domande per non fare nulla. Perché chiedere “cosa fare” quando tutto brucia è già scegliere di essere cenere.
Ma prima di tutto, dovete uscire dal vostro torpore. Rompere l’ipnosi e spegnere gli schermi. Leggete e imparate. Spegnete il flusso di rumore per riaccendere il fuoco dell’intelligenza. Riappropriatevi della vostra mente, della vostra memoria, del vostro giudizio. Perché la prima rivoluzione di tutte è quella mentale. Chiunque pensi liberamente è già un ribelle. Chi vede chiaro diventa un “pericolo” per chi ha il potere.
Dobbiamo anche rifiutare i giochi di potere. Non votare più per i suoi carnefici. Non legittimare più un sistema in rovina con pretese democratiche. L’astensione non è una fuga ma un atto politico, quando diventa massiccia, totale e articolata. Il vero coraggio oggi non è quello di eleggere un nuovo allenatore, ma di negare la sua legittimità. Ma per fare questo, dobbiamo organizzarci al di fuori del sistema. Creare reti, comunità, collegamenti orizzontali. Prendere il controllo dell’economia dal basso verso l’alto con le cooperative, i cortocircuiti, l’aiuto reciproco diretto. Diventare produttori di ciò che consumiamo, appropriarci di ciò che lo Stato abbandona. Non aspettare più che il sistema ceda. Crea ciò che impedisce e disobbedisci sistematicamente, costantemente.
Poi bisogna reinvestire nel territorio. Tornare alla realtà. Alla terra. Alle radici. Per rioccupare le campagne deserte, le città abbandonate, le terre abbandonate. Trasformare la casa in un luogo di resistenza, il villaggio in un bastione, la famiglia in un santuario. Ricreare un senso del luogo in cui tutto è solo flusso. L’arma del popolo è la terra. Sempre. Ma non si può ricostruire su un terreno marcio. Dobbiamo quindi purificare la zona. Dobbiamo scacciare il popolano, colui che disprezza la terra che calpesta, colui che distrugge senza costruire nulla. Dobbiamo punire il delinquente, senza debolezze, senza scuse sociali. Perché la tolleranza del crimine è un lusso che le persone in pericolo non possono più permettersi. Lo stupratore, l’assassino, il predatore devono essere eliminati, non per vendicarsi, ma per proteggere.
Perché senza sicurezza non può esserci libertà. Senza una vera giustizia, non ci può essere una pace duratura. L’ordine non deve essere uno slogan di autorità, ma un atto di sopravvivenza collettiva. Non si tratta di brutalità, ma di necessità. Dove la legge non è più applicata, è dovere del popolo ristabilirla. Perché recuperare un territorio non significa solo piantare semi, ma anche ristabilire lo stato di diritto, l’onore e la naturale gerarchia delle cose. Dove regnano il caos, la paura e la violenza gratuita, dobbiamo essere fermi, strutturati e difendere la nostra gente.
Allora dobbiamo decostruire le false guerre e prepararci a quelle vere. Dobbiamo smettere di combattere contro gli spaventapasseri fabbricati da chi è al potere, come i nostri vicini, gli stranieri, i disoccupati, i “teorici della cospirazione”, gli agricoltori, gli insegnanti, i giovani, gli anziani… Dobbiamo riscoprire la nostra unità di fronte alle avversità. Perché l’unico vero nemico è chi governa contro il popolo. Il giorno in cui i popoli si guarderanno senza odio, sarà il giorno in cui i potenti cadranno.
Ma dobbiamo anche nominare ciò che viene con la guerra, la vera guerra. Non la guerra delle fantasie, ma quella delle risorse da preservare, dei confini da proteggere, degli imperi da eliminare e delle libertà da riconquistare. La guerra contro questi disumani arriverà, questo è certo. E coloro che hanno aspettato troppo a lungo, coloro che non hanno costruito nulla con le proprie mani… moriranno in ginocchio. Quindi, sì, dobbiamo armarci fisicamente, mentalmente e strutturalmente. Non per attaccare, ma per smettere di essere prede.

Per questo dobbiamo riprenderci le parole, il linguaggio, il senso delle cose e della vita. Perché la battaglia che ci aspetta è anche culturale. Dobbiamo smettere di parlare come i nostri nemici. Dobbiamo smettere di dire “convivenza” quando intendiamo imposizione. Smettere di dire “tolleranza” quando intendiamo sottomissione. Riprendere il linguaggio significa creare le nostre storie. Scrivere, cantare, gridare, perché un popolo senza parole è un popolo senza memoria e quindi senza futuro.
Perché dobbiamo crescere i nostri figli nella verità. E non sacrificare più le generazioni future sull’altare della tranquillità del presente. Insegnare la forza, la realtà, il coraggio e la vera storia. Imparare a disobbedire quando gli ordini sono ingiusti. Imparare a combattere, a difendersi, a discernere. Il sistema produce schiavi docili, mentre il popolo deve crescere uomini liberi.
Ecco perché dobbiamo scegliere il coraggio piuttosto che la pace. Perché sì, costerà. Sì, ci saranno perdite, dolore e sacrifici. Ma non è nulla in confronto a una vita passata in ginocchio. Bisogna rinunciare a una pace confortevole per riconquistare una guerra giusta. Meglio il caos fertile che l’ordine sterile. Meglio cadere che vivere nella sottomissione. Ora. Proprio qui. Rompere le catene. Recuperare tutto o morire in queste catene.
Eppure ci sono molti in questo Paese che hanno già visto tutto, capito tutto, detto tutto, scritto tutto. Hanno denunciato, esposto, ripetuto all’infinito; hanno gridato, allertato e raggiunto. Hanno nominato i mali, hanno fatto luce sulle maschere, hanno dato le chiavi. Eppure, nonostante tutto questo, non è stato fatto nulla. Questo Paese continua ad affondare e la sua gente china la testa, si sdraia e rinuncia persino alla propria dignità. E per coloro che ancora non lo capiscono, non c’è tempo per educarsi a capire. Quindi lasciamoli perire nel loro sonno e nella loro negazione.
Quindi, se volete salvarvi anche voi, scegliete di accendere il fuoco e non la candela. Perché chi dice “cambiamo lentamente”, “riformiamo con intelligenza”, “siamo ragionevoli”, è già perduto. La malattia è troppo radicata, il marcio troppo profondo. Non abbiamo bisogno di un cerotto, ma di un’amputazione. Non dobbiamo riaccendere le luci, ma dare fuoco alla prigione. Perché il vecchio mondo non cadrà da solo. Deve essere rovesciato. E per farlo, dobbiamo essere giovani, numerosi, intelligenti, organizzati e implacabili, perché non si riforma la servitù, la si spezza.
E in questo Paese, se chi governa pensa che il popolo sia già morto, si sbaglia. Perché la rabbia sta maturando e la lucidità sta crescendo. E forse presto il popolo di domani si solleverà finalmente. Non per chiedere, ma per riprendersi. Non per negoziare, ma per ricostruire. E quel giorno, che tremino tutti, perché chi ha dormito troppo a lungo, chi ha perso tutto, è pericoloso e si sveglia sempre affamato…
Phil BROQ.
Fonte: jevousauraisprevenu.blogspot.com
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