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Intervista a Ruí Faria il 12 Giocatore in Campo di José Mourinho

Ricordo come fosse oggi quando mi diplomai come tecnico professionista al Monumental di Buenos Aires in Argentina, fuori dalla sede degli esami decine di giovani accalcati si offrivano con le loro credenziali scritte su un foglio battuto a macchina per fungere da collaboratore.

Ruí Faria

In Sudamerica é una consuetudine questa che si ripete da sempre, in quanto molti non si possono permettere economicamente parlando un corso della durata di due anni che li abiliti ad allenare il calcio che conta e stare a fianco di un tecnico di massima divisione è per loro privilegio molto ambito che diciamocelo pure li toglie spesso da una povertà certa.

Un collaboratore di fiducia di fatto diventa il 12 giocatore in squadra di cui non puoi proprio farne a meno, è colui che ti sta sempre affianco quando le cose non vanno bene e che vede le cose sotto un diverso punto di vista.

Risulta essere la persona con cui puoi parlare liberamente di quello che succede e ha una voce in capitolo su tutto quanto un tecnico svolge regolarmente sul campo di gioco e in allenamento.

Ruí Faria é una figura professionale a molti sconosciuta ma che ha inciso in modo determinante su tutto quanto ha vinto un tecnico pluridecorato come José Mourinho, ebbi modi di approfondire la sua conoscenza quando andai a Barcellona per omologare il mio titolo Fifa in Europa e presso una biblioteca sportiva ebbi modo di leggere alcune sue pubblicazioni editoriali che parlavano di tutto tranne che di calcio.

Rimasi deluso e allo stesso tempo incuriosito in quanto faceva riferimento alla filosofia, alla scienza comportamentale e persino alla fisica quantistica e non riuscivo a capacitarmi del nesso di tutto questo in riferimento al suo lavoro.

Col senno di poi oggi non è stato difficile capire quanto la sua visione del calcio era assai diversa rispetto a tutti i suoi colleghi di lavoro, tecnici e non, ed è bene sapere questo, in quanto ti fa capire che conoscere il Futbol in definitiva risulta essere spesso la cosa meno importante del gioco

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Intervista rilasciata durante la sua permanenza al Chelsea FC

Carlos Campos: La ripetizione sistematica dei principi si basa su tre pilastri fondamentali: il principio della progressione complessa, il principio dell’alternanza orizzontale nella specificità e il principio delle propensioni. Secondo la vostra esperienza, siete d’accordo che l’ultima è la più complessa, quella che richiede una migliore conoscenza del gioco, quella che contribuisce in modo più efficace alla specifica “giocata” che desiderate?

Ruí Faria & José Mourinho

Rui Faria: È fondamentale capire la relazione che esiste tra i tre e la complessità dell’esercizio che si crea. Nell’esercizio appariranno alcuni principi e sottoprincipi che vogliamo evidenziare perché fanno parte del nostro modo di giocare, ma dobbiamo tenere conto che non possiamo e non vogliamo isolare questi aspetti da altri che appaiono intrinsecamente.

L’importante è capire la complessità di ciò che ci viene chiesto e inserirlo in una logica di lavoro settimanale che permetta di facilitare l’acquisizione. Pertanto, non possiamo pretendere certi principi di grande complessità quando i giocatori sono ancora in un processo di recupero mentale ed emotivo. Non possiamo pensare a uno di questi tre principi senza pensare agli altri, poiché lo schema delle richieste deve essere inquadrato nella sua organizzazione settimanale nel momento migliore per avere successo nell’acquisizione di quello stesso principio.

D: Considerando sempre l’azione come primordiale in quella che è l’acquisizione delle abitudini che vogliamo mettere in atto, che importanza dai all’identificazione teorica con i principi del gioco?

R: Credo che questo sia strettamente legato alla complessità di ciò che vogliamo trasmettere, perché più complessa è l’informazione che vogliamo trasmettere, più importante diventa il supporto teorico. Quando ci troviamo di fronte a un nuovo gruppo e vogliamo implementare un certo tipo di comportamento, diventa decisivo supportare ciò che vogliamo con immagini e altre risorse teoriche. Può anche diventare importante quando vediamo che accade qualcosa che non è congruente con le nostre intenzioni e che, di conseguenza, deve essere corretto per non ripetersi.

D: Sapendo che i soggetti dell’apprendimento devono essere consapevoli dei comportamenti in questione nelle situazioni di apprendimento (esercizi) per poter dirigere il “focus” del loro cervello, come si tiene conto di questo aspetto nell’operazionalizzazione del training?

R: Fondamentalmente dobbiamo capire che l’esercizio, quando appare, deve già essere configurato in modo tale che i comportamenti che intendiamo in termini di principio, di obiettivo, diventino evidenti, cioè, quando lo strutturiamo, creiamo già le condizioni affinché ciò che intendiamo appaia frequentemente. Questa è la cosa più importante, è la specificità dell’esercizio e noi, come allenatori, a seconda delle nostre esigenze, lo concepiremo in funzione di un determinato obiettivo.

Durante l’esecuzione dell’esercizio, l’intervento in funzione della relazione giocatore-esercente-allenatore, a volte ci fa sentire la necessità di creare qualcosa in più, affinché ciò che vogliamo si manifesti in modo più marcato. Questo tipo di intervento è possibile solo se sappiamo bene dove siamo e dove vogliamo andare, cioè richiede una conoscenza molto ben strutturata del Modello di Gioco che ci permetta di riadattare l’intervento sempre in direzione di un obiettivo specifico. Quando creiamo nuovi esercizi dobbiamo provarli e vedere come funzionano nella pratica e spesso correggiamo piccoli dettagli, ma la chiave è sapere esattamente cosa vogliamo e creare l’esercizio più adeguato a questa esigenza, in modo che quando lo sottoponiamo ai giocatori essi sperimentino i comportamenti e gli obiettivi che vogliamo.

D: Uno degli obiettivi dell’allenamento è contrastare la lentezza del cervello sviluppando la capacità di anticipare. Quale configurazione date allo studio affinché questo emerga il prima possibile?

R: La specificità in relazione al modello di gioco è fondamentale e da qui dobbiamo creare le condizioni affinché il giocatore si trovi di fronte al massimo delle situazioni possibili in modo da poterle anticipare, favorendo un aspetto naturale delle cose senza la necessità di una lunga elaborazione delle informazioni. La specificità che mettiamo nell’allenamento permetterà al giocatore di adattarsi a un certo modo di giocare e, di conseguenza, in gara anticiperà una serie di situazioni, consentendo una risposta più rapida. Naturalmente, si tratta anche di un processo di assuefazione e la progressione da meno complesso a più complesso è fondamentale per facilitare l’apprendimento.

La sperimentazione dei comportamenti desiderati li renderà sempre più naturali e per questo diminuirà la necessità di pensarci molto, le cose accadono in modo semplificato perché dalla creazione dell’abitudine che si acquisisce dalla sperimentazione delle realtà che desideriamo, il giocatore non ha problemi a trovare la risposta perché è un’esperienza già acquisita.

P: Raggiungere il successo in modo che qualcosa venga appreso più facilmente è un dato di fatto. Nell’operatività della formazione, come si trova l’equilibrio tra la promozione del successo come facilitatore dell’apprendimento e la creazione di esercizi con un grado di difficoltà adeguato?

R: Anche in questo caso si tratta del principio della progressione da meno complesso a più complesso. È evidente la necessità di maturare sempre di più i nostri principi e sottoprincipi. All’inizio dobbiamo ridurre la complessità in modo che, in una prima fase, la ripetizione sistematica dei principi avvenga senza grossi ostacoli e poi, in una fase più avanzata, quando sappiamo che quei principi sono già diventati un’abitudine, la complessità dell’esercizio è maggiore e quindi dobbiamo concentrare la nostra preoccupazione nel capire come sia possibile aumentare la qualità del nostro gioco partendo da livelli di complessità sempre più alti.

P: Ciò che si impara deve essere conservato in qualche modo, in modo da poter essere richiamato nel giusto contesto. Nell’operatività della formazione, quali differenze descrive tra gli esercizi prevalentemente di apprendimento e quelli più orientati al mantenimento di qualche principio?

R: Prima di tutto dobbiamo capire a che livello siamo. È decisivo capire qual è la cultura individuale dei giocatori in termini di gioco, è fondamentale capire le qualità dei giocatori e comprenderle in base a ciò che vogliamo. Se vogliamo che il nostro lavoro di formazione abbia successo e che sia un processo di apprendimento in termini di cultura del gioco, di comportamento collettivo, è necessario comprendere questa evoluzione in termini di complessità.

Questo è decisivo, ma è anche decisivo fare una valutazione di quella che è la nostra squadra, dei nostri giocatori e della conoscenza che la squadra ha del gioco. Facciamo una valutazione che, grazie all’introduzione di sotto-principi e principi, alla complessità degli esercizi che vengono creati, a volte, dato che si tratta di un processo e come è stato detto prima, creiamo costantemente nuovi esercizi anche se gli obiettivi a volte rimangono gli stessi, creiamo esercizi in modo che ci sia un cambiamento, un’evoluzione di qualcosa che crea qualche ostacolo, all’esecuzione di un certo principio, in modo che ci sia un riadattamento strutturale e mentale in modo che non sia sempre un processo identico, in modo che ci sia un arricchimento in termini di lavoro.

Ruí Faria & José Mourinho

Oltre alla necessità di evolvere verso nuovi esercizi, dobbiamo anche aspettare e vedere come i giocatori reagiranno all’esercizio, alle regole e ai principi che vogliamo implementare. Sentiamo la necessità, anche durante l’esercizio stesso, di riadattare, riadattare in modo che la complessità sia maggiore o minore, in modo che l’obiettivo che vogliamo si realizzi.

Fondamentalmente, questo è un lavoro molto importante per l’allenatore, per la necessità e il rapporto che deve avere con l’esercizio stesso per capire il livello dei giocatori, della squadra e la comprensione dei principi e dei sotto-principi e il livello di cultura dei giocatori in termini di gruppo, per capire se l’acquisizione e il successo in termini di esercizi e l’acquisizione del principio sta avvenendo.

Da qui, creiamo la maggiore o minore complessità dell’esercizio e ci riadattiamo in tal senso affinché le cose avvengano con successo e, naturalmente, se la situazione è troppo facile non otteniamo le migliori prestazioni, perché capiamo facilmente che i giocatori hanno eseguito con la massima facilità e, d’altra parte, se è troppo complessa non è importante perché non avviene nemmeno l’acquisizione di ciò che vogliamo.

È questo equilibrio che è fondamentale anche nel nostro rapporto diretto con le esercitazioni e nel nostro intervento nella conduzione del lavoro stesso; quello che dobbiamo capire è: dobbiamo partire da una complessità più bassa per arrivare a una complessità più alta, individuare chiaramente la cultura dei giocatori e il livello di gioco della squadra e da lì creare esercitazioni per adeguarsi al massimo successo nell’acquisizione degli obiettivi.

Non possiamo lavorare sugli estremi, né sulla complessità più alta né su quella più bassa perché non c’è nessun ostacolo nell’elaborazione del lavoro, da ciò che vogliamo all’azione, inoltre non c’è evoluzione, dobbiamo creare situazioni in cui il giocatore deve riadattarsi, riadattarsi a qualcosa di nuovo in modo che questa evoluzione possa avvenire.

D: È noto che nella codifica delle informazioni, la pre-conoscenza della matrice facilita l’apprendimento perché c’è solo bisogno di ricodificare ciò che cambia in relazione a ciò che era già noto. Come si affronta questo fatto nella pratica, sapendo che ci sono ritmi di apprendimento diversi per individui diversi, che ci sono giocatori che arrivano nuovi e devono codificare un intero insieme di informazioni che la maggior parte di loro ha già padroneggiato?

R: Quanto maggiore è la mancanza di conoscenza del giocatore o della squadra in relazione a un certo tipo di comportamento che vogliamo per la squadra, tanto più fondamentale è il supporto teorico. Innanzitutto, lo abbiamo già selezionato per far parte della squadra perché aveva delle caratteristiche che erano interessanti nel senso di quello che ci si aspetta (in termini di gioco), poi ci sono dei comportamenti che sono necessari e fondamentali all’interno del linguaggio della squadra, e normalmente quello che facciamo con i nuovi giocatori è creare delle condizioni agevolate affinché, senza danneggiare il gruppo, possano fare un insieme di esperienze che gli permettano di acquisire più velocemente la conoscenza di quello che è la squadra.

A volte, se così possiamo chiamarlo, potrei dire che viene fatto un “lavaggio del cervello” nel senso di dare dei supporti visivi e teorici con cui il giocatore accompagna gli incontri individuali e collettivi, negli esercizi cerchiamo di creare delle situazioni in cui possa fare delle esperienze a livello di quello che vogliamo da lui, ma è ovvio che c’è bisogno di un intervento maggiore e di una particolarizzazione dei comportamenti in relazione a questo specifico individuo ma senza che questo vada a ledere il contesto di quelle che sono le informazioni e la complessità a cui gli altri sono abituati, In sostanza dobbiamo trovare un equilibrio per far immedesimare il giocatore nei comportamenti, nel linguaggio di gruppo e nella cultura di gioco della squadra, e cercare di farlo nel modo migliore per facilitare la comprensione delle informazioni date, siano esse teoriche o visive, e allo stesso tempo far sperimentare concretamente una serie di esercizi che gli permettano di sperimentare quegli stessi comportamenti di gioco che vogliamo.

Naturalmente, dobbiamo capire che il gioco stesso ha bisogno di un’evoluzione in termini di complessità, che è tanto maggiore quanto maggiore è l’evoluzione e la progressione del giocatore. Dipende molto dal giocatore, dalla sua intelligenza e dalla sua cultura di gioco capire più rapidamente quali sono le idee dell’allenatore, quali sono i comportamenti che l’allenatore vuole per lui come elemento della squadra e qual è la libertà che ha all’interno della squadra.

A volte, come squadra, è necessario riadattare il comportamento di alcuni giocatori in base alla loro qualità. Possiamo fare l’esempio di un’ala o di un’altra, dove sappiamo che è un giocatore estremamente forte, quindi dobbiamo creare meccanismi di equilibrio nella squadra, in modo che quando sappiamo che, nonostante il suo comportamento sia subordinato al collettivo, dobbiamo trovare un equilibrio comportamentale all’interno della squadra, in modo da essere preparati per quando si verifica un fallimento.

In sostanza, si tratta di piccoli aggiustamenti comportamentali in termini di squadra, in base alla realtà di un nuovo elemento che viene introdotto e che entra a far parte del gruppo. Sono piccoli aggiustamenti, ma non si tratta mai di un cambiamento drastico nel modo di giocare, sono aggiustamenti specifici secondo un piano strategico, e questo accade spesso, è anche un processo evolutivo e, a volte, con piccoli dettagli facciamo la differenza e anche il modo di giocare del giocatore stesso, che è importante per noi, e il modo di essere di questo giocatore ci fa creare meccanismi per promuovere il successo nel gioco.

A volte dobbiamo trovare soluzioni comportamentali in altri elementi del gruppo che non danneggino il linguaggio comune del team, ma che ci permettano di facilitare il successo dell’elemento stesso. C’è un insieme di dettagli che si verificano non solo quando l’elemento è nuovo, ma anche durante la stagione stessa, e sono fondamentali per il successo del gruppo.

Ruí Faria & José Mourinho

D: Conoscendo il suo modo di vedere l’allenamento, sappiamo che la sua azione è rivolta principalmente al condizionamento del macrolivello di “gioco”. Quali sono le caratteristiche generali del vostro intervento a livello micro?

R: È tanto più importante quanto più è disturbante per la risoluzione del gioco per il successo della squadra. È molto più importante intervenire per quanto possa nuocere al nostro modo di giocare, perché anche se è micro, o come vogliamo chiamarlo, è importante nel senso che pensiamo che ci sia bisogno di intervenire a seconda di quanto possa influenzare la squadra in termini di gioco.

Quindi, questo intervento può essere fatto a volte perché ci accorgiamo che sta succedendo qualcosa, ma possiamo fare un intervento quando mettiamo in pausa l’esercizio e richiamiamo la nostra attenzione su aspetti che sono importanti per l’esercizio, richiamando la nostra attenzione in particolare sulla questione che è micro ma può avere qualche disturbo. A volte sentiamo il bisogno, durante l’esercizio stesso, di interromperlo, in modo che quel comportamento o quel dettaglio in termini di comportamento non si ripeta.

Possiamo fare l’esempio di un terzino che perde la palla, di un’ala che perde la palla, di un pivot che perde la palla o di un centrocampista interno che perde la palla. Tutto è subordinato al macro, l’individuo è soggetto a quello che è il linguaggio comportamentale comune, l’individuo deve essere identificato con questo, quando si verifica l’errore e quando un certo dettaglio, dal punto di vista individuale, danneggia il comportamento collettivo, quegli equilibri collettivi del team devono adeguarsi immediatamente.

Quindi, il nostro intervento è tanto più importante quanto più danneggia la nostra squadra. Se dobbiamo intervenire e interrompere immediatamente l’esercizio per far capire che qualcosa non va, che qualcosa non è giusto, o che qualcosa può essere importante, non è solo quando le cose accadono negativamente, ma anche quando accadono positivamente, perché quando prepariamo un esercizio prepariamo un principio che non è un fine.

Non è una fine perché permettiamo che da lì le cose si evolvano a seconda della creatività dei giocatori subordinata a ciò che vogliamo in termini globali del gruppo, ma diamo anche la libertà di un meccanismo non meccanico, cioè, in fondo assegniamo il principio, organizziamo quel principio ma non si esaurisce in ciò che stabiliamo nel realizzare l’obiettivo che vogliamo che accada, ma da lì dobbiamo renderci conto che tutto ha un’evoluzione e che l’evoluzione ci fa pensare anche a cose nuove.

P: Ammettendo una squadra come un insieme di attori con funzioni diverse che condizionano le proprietà dell’insieme, è quest’ultimo a determinare il raggiungimento o meno dei comportamenti desiderati. Tuttavia, l’evoluzione dell’insieme si basa sul miglioramento individuale di ciascuno dei suoi componenti, un miglioramento condizionato a riferimenti eminentemente collettivi. Se si dà un primato totale a questo obiettivo collettivo, come ci si comporta nella pratica con i singoli casi che per qualche motivo non raggiungono questi riferimenti collettivi, impedendo così il loro miglioramento contestualizzato?

R: In primo luogo dobbiamo capire che la squadra è più importante del singolo e se capiamo che c’è un giocatore che ha delle qualità e che queste qualità possono essere importanti anche per noi, a volte succede che le sue caratteristiche, pur essendo interessanti e pur pensando che possano contribuire in modo positivo alla squadra, non si adattano al nostro modo di giocare.

Possiamo trovare dei meccanismi all’interno della squadra per sostenere queste caratteristiche individuali, ma non possiamo fare di queste caratteristiche individuali un ostacolo al nostro modo di giocare. Dobbiamo trovare un punto di equilibrio e dobbiamo anche credere che sia possibile trovarlo all’interno della squadra. Non dobbiamo mai fargli fare del male alla nostra squadra e dobbiamo cercare di trovare un equilibrio, che dipende anche dall’intelligenza dei giocatori. Il giocatore deve anche capire, dal punto di vista della squadra, e la squadra deve conoscere il giocatore per permetterne l’integrazione.

Ora, è fondamentale capire che a volte i giocatori, per quanto lo vogliamo, non hanno abbastanza cultura o intelligenza tattica per capire il nostro gioco. Il nostro compito è quello di creare le condizioni per inserire un giocatore nel contesto del gruppo senza che danneggi la nostra dinamica collettiva, perché in nessun momento può disturbare la dinamica collettiva e per questo promuoviamo la creazione di alcuni meccanismi in modo che possa essere supportato dalla squadra e questo è decisivo, deve essere ben strutturato in modo da capire che a volte i giocatori sono abituati a una certa posizione e le loro caratteristiche ci fanno pensare a posizioni diverse in cui possiamo esplorare meglio certe capacità e caratteristiche del giocatore in un’altra posizione rispetto a quella a cui è abituato.

Possiamo fare un esempio: nell’ultimo club in cui abbiamo militato, avevamo diversi giocatori che erano legati a una determinata posizione in campo e ci siamo resi conto che, nel nostro modo di giocare, quel giocatore non era il più adatto o non aveva le caratteristiche più adatte a ciò che volevamo e abbiamo trovato soluzioni posizionali diverse per quei giocatori. Un esempio concreto è stato Geremi, che è stato indicato come un giocatore di centrocampo, dove poteva giocare in qualsiasi posizione di quel settore, cioè pivot, centrocampista destro o centrocampista sinistro, e che ha giocato molte volte come terzino, e anche come ala.

Quindi, in base alle esigenze e alle caratteristiche degli altri giocatori in campo, siamo riusciti a creare un supporto in modo che questo giocatore potesse contribuire alla squadra. Dobbiamo conoscere molto bene i giocatori, e con il tempo succede anche questo, e quindi siamo riusciti a creare le condizioni perché lui possa essere importante all’interno della squadra.

Ruí Faria & José Mourinho

D: Le deviazioni creative, gli squilibri, ci appaiono come qualcosa che in qualche modo deve essere collegato a MJ. Come li vedete nella dimensione macro, cioè come li rafforzate sapendo che riguardano un ordine nascosto?

R: Non siamo inibitori della creatività. Abbiamo un linguaggio comune che è un punto di partenza, perché il Gioco è una dinamica in cui sorgono continuamente cose nuove che creano difficoltà per i giocatori e creano costantemente la necessità per il giocatore di rispondere con successo a queste situazioni. In questo senso, è importante capire che il linguaggio che abbiamo introdotto è una guida, ma poi quella guida organizzativa collettiva permette alla creatività e all’individualità contestualizzata di emergere supportata da quel linguaggio comune. In termini individuali, le caratteristiche di un giocatore fanno sì che si creino dei meccanismi per sostenerlo, in modo che il successo sia più facile da raggiungere.

Ad esempio, i giocatori che sono molto forti nell’1×1 “pretendono” che si crei un modo per bilanciare la squadra quando si verifica un fallimento. Diciamo che è fondamentale non inibire la creatività, ma è essenziale che sia inserita nell’ottica dell’insieme, perché deve essere sempre supportata, cioè non può essere casuale o fuori contesto, perché così sbilanciamo la nostra squadra invece di sbilanciare l’avversario. Il giocatore deve essere intelligente per capire quando può aprire la sua creatività e ci deve essere questa sensibilità, altrimenti la squadra può risentirne negativamente, mettendo a rischio il successo della squadra, quindi ci deve essere questo punto di equilibrio e questo è tanto più possibile quanto più i giocatori conoscono le dinamiche comportamentali della squadra!

D: Ammette come potenzialmente importanti per il raggiungimento del Modello di Gioco altre cose oltre alla ripetizione sistematica dei Principi di Gioco, tenendo conto della sua esperienza in campo (allenamento con i pesi, personal-training, piscina…)?

R: Non vedo altre possibilità se non la ripetizione sistematica dei Principi di Gioco, perché è FONDAMENTALE capire che l’organizzazione è il successo e più la squadra è organizzata più ci saranno probabilità di successo. In una stagione estremamente competitiva, dove a volte la mancanza di tempo per allenarsi ci costringe a farlo con una sovra-specificità rispetto al Modello, l’unica preoccupazione che abbiamo è quella di allenare i comportamenti di gioco, di allenare i principi, di concentrarci sull’aspetto strategico in base all’avversario per anticipare ciò che accadrà nella partita successiva, di correggere i comportamenti della partita precedente, cioè, dobbiamo sfruttare al massimo il tempo che abbiamo per allenarci, per massimizzare il modello di comportamento che vogliamo e non pensiamo a nient’altro!

D: Ma essendo al vertice, dove ogni dettaglio è decisivo, non sente la necessità di individualizzare l’allenamento con il ricorso a macchine per l’allenamento con i pesi, alla piscina, al personal-training… Insisto su questo punto perché ci siamo confrontati più volte, anche all’interno della nostra Facoltà, con il fatto che lei, al Chelsea, utilizza questo tipo di risorse? Può confermarlo? In che modo lo fate?

R: Solo per idiozia e mancanza di rigore scientifico si può affermare una cosa del genere, perché la necessità in termini di evoluzione del gioco è tale che non abbiamo tempo di pensare a questo tipo di particolarizzazioni e a queste domande. La nostra prospettiva di lavoro non promuove questo aspetto perché non crediamo che possa essere privilegiato in termini di performance e, poiché ciò che vogliamo è la performance e questo significa organizzazione, è estremamente stupido dire e non so da dove hai preso questa idea che abbiamo dei personal trainer o che facciamo bodybuilding.

È un’enorme mancanza di rigore scientifico fare commenti del genere, perché quando non si ha il tempo di allenare ciò che per noi è fondamentale, figuriamoci di allenare cose che non fanno parte del nostro modo di pensare l’allenamento, quindi non fanno parte della nostra natura anche se avessimo il tempo ed è chiaro che non esistono nel nostro modo di allenare! Ripeto ancora una volta che solo per stupidità e mancanza di rigore scientifico si può dire che abbiamo fatto personal-training o che ci siamo allenati in piscina! A proposito, vorrei chiedervi di invitare queste persone a fare una sessione di formazione con noi, quando vi troverete di nuovo di fronte a queste affermazioni, per sapere qual è la nostra realtà ed essere più rigorosi quando fanno questo tipo di osservazioni.

Non dobbiamo dimostrare niente a nessuno, né dobbiamo dire che facciamo cose che non facciamo, quindi rido quando lo dici. Il responsabile principale era l’allenatore, poi ci sono stato io, e come secondo responsabile della struttura tecnica dico che è ridicolo che si dica che facciamo un certo tipo di cose che non facciamo! Chi non mi crede può venire a guardare e vedere quello che dico.

Ruí Faria

È facile capire che, durante un processo di riabilitazione medica, ci sono giocatori che hanno, per come è organizzato il dipartimento medico, la responsabilità del loro processo di riabilitazione, del superamento dell’infortunio, e questi giocatori sono stati affidati a elementi del dipartimento medico che avevano, in determinati momenti, la cura di loro e le attività da fare con i giocatori, e quindi, sì, Hanno utilizzato i mezzi che ritenevano importanti per il loro recupero, ma in questo caso i giocatori non lavoravano sul campo, non erano seguiti dallo staff tecnico, perché stiamo parlando del processo di recupero, dove andavano in palestra, facevano idroginnastica, ma in una prospettiva di recupero funzionale e biomeccanico.

Dal momento in cui i giocatori sono stati recuperati funzionalmente e sono tornati in campo, tutto il lavoro è stato progressivamente specifico in termini di modalità e modello di gioco. Non abbiamo bisogno di dimostrare niente a nessuno, anche a causa del percorso che abbiamo seguito, né di dire che facciamo una cosa e ne facciamo un’altra solo perché ci ricordiamo di dire che siamo diversi. Siamo effettivamente diversi e per chi non riesce a capire questa realtà è più facile dire che siamo uguali a loro piuttosto che dire che lavoriamo in modo diverso perché sappiamo come si allenano loro ma loro non conoscono il nostro modo di allenarsi.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Campos, C. (2007). A Singularidade da Intervenção do Treinador como a sua “Impressão Digital” na… Justificação da Periodização Táctica como uma “fenomenotécnica”. Porto: C. Campos. Dissertazione di laurea presentata alla Facoltà di Sport dell’Università di Porto.

Monografia di Licenciatura realizzata nell’ambito del tema del Seminario del 5° anno della Licenciatura in Sport ed Educazione Fisica, nell’opzione Calcio, della Faculdade de Desporto dell’Università di Porto.

Consulente: Professor Vítor Frade

Fonte: Archivio Privato

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