Il Valore Dato al Rapporto Umano è il Segreto per le Grandi Prestazioni
Io non so voi, ma gli atleti hanno inciso in modo preponderante su di me non sono mai stati coloro che hanno realizzato delle elevate performance pur se hanno destato tutta la mia ammirazione, ma sono stati coloro che hanno evidenziato qualità che nulla avevano a che fare con la prestazione in sé.
Detto tra noi, i valori etici e morali di gran parte degli atleti di vertice nel mondo dello sport lasciano spesso molto a desiderare (basta vedere gli atleti che hanno partecipato alle ultime olimpiadi) e l’ho messo in evidenza a più riprese attraverso gli articoli pubblicati sul portale che gestisco e voglio ricordare a tutti i lettori cosa intendo quando parlo di quei valori umani sopiti che un tempo facevano parte integrante di un modello educativo ben consolidato.
Avevo poco meno di 30 anni e le mie ambizioni erano inversamente proporzionali al talento, troppo lento per arrivare primo e troppo veloce per essere ultimo, insomma… una vita da gregari come ce ne sono tante, in società con me c’era un atleta che aveva iniziato a correre a 34 anni e dopo appena 6 mesi si poteva già permettere di correre poco sopra i 3 minuti a km, il suo modo di correre era totalmente fuori dagli schemi e si presentava alla partenza delle gare domenicali con una maglietta da basket dei calzoncini da calcio e delle scarpe comperate al mercato.
Altro dettaglio da sottolineare era che al ritiro del tagliando per partecipare ad una competizione indossava sempre una giacca sgualcita, una camicia scollata, dei pantaloni in stoffa grezza e scarpe in cuoio neanche dovesse andare al bar per un aperitivo.
Un giorno ad una competizione locale su strada, tra i partecipanti c’era al completo la squadra della forestale reduce dalla vittoria a squadre nei mondiali di corsa in montagna, nonché Salvatore Bettiol neo talento della nazionale di maratona insieme a Gelindo Bordin e Orlando Pizzolato e che si trovava nel pieno della preparazione per gli imminenti campionati italiani che avrebbe poi vinto.
Al traguardo arrivò terzo con un arrivo in volata dopo aver condotto la gara durante tutto il percorso, alla fine l’allenatore del nazionale venne da noi chiedendo chi era e da dove veniva quel brutto anatroccolo che aveva osato sfidare il meglio del panorama mondiale della specialità.
Lui non ritirava mai i premi in quanto aveva sempre fretta per andare a casa con la famiglia, spesso rinunciava a vincere per far contenti gli amici, ed era sua consuetudine regalare la vincita ai ragazzini che assistevano alla premiazione i quali felici si portavano a casa una coppa, condividendo con i compagni la ricompensa in natura che spesso era una forma di formaggio o un bel salame nostrano.
Quando ci allenavamo insieme lui aveva una marcia in più e mai una volta che si sia permesso di superarci per dettare il ritmo, un giorno ci ritrovammo al campo di atletica e lui dopo un allenamento svolto per conto suo lungo l’argine del Piave (Si allenava sempre 3 volte a settimana mai un giorno in più, facendo le stesse cose molto banali e la domenica… Gara) gli chiedemmo di farci vedere in pista come si corre a 3′ al km, il ritmo tenuto da Alberto Salazar che poco prima aveva vinto la maratona di New York terminata in 2h08
Detto fatto percorse un km e sbagliò di 4 secondi….in meno naturalmente e senza nemmeno aver il fiatone si mise a ridere dicendo che non era poi un gran che secondo lui.
Smise di correre dopo nemmeno due anni che iniziò a causa di alcune vicissitudini familiari e tutti noi che lo abbiamo conosciuto abbiamo sempre avuto di lui un ricordo che rimarrà stampato nella nostra memoria e nei nostri cuori per quella che era la sua bontà d’animo e l’umiltà dimostrata di chi vive il momento senza mai porsi molte domande.
Il suo anonimato come atleta lo rende una persona qualunque, ma per tutti noi è, e sempre sarà, il nostro punto di riferimento nello sport e soprattutto nella vita.
Toba60
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Il Valore aggiunto del Rapporto Umano
Ai Giochi Olimpici del 1960, un uomo di 60 anni, magro come una roccia e con una testa piena di capelli bianchi, si mise sulla pista di allenamento adiacente allo stadio olimpico principale e iniziò a correre più forte che poteva. L’anziano e gracile uomo faceva smorfie e si sforzava di completare i 3 e ¾ di giro che costituiscono l’equivalente olimpico del miglio: i 1.500 metri di corsa.
Tagliando il traguardo immaginario, piegato dalla stanchezza, gli sporadici spettatori si sono giustamente chiesti cosa stesse facendo questo vecchio. Erano i giochi olimpici, tutti gli altri erano tra i migliori al mondo e si preparavano a conquistare l’oro. L’anziano si avvicinò al suo allievo più giovane e disse: “Potrai anche correre più veloce di me. Ma non correrai più forte”.
Il suo allievo, Herb Elliott, si sarebbe schierato quella sera contro i migliori del mondo. L’anziano Percy Cerutty era l’allenatore di Elliott. Nelle ore precedenti la gara, Cerutty ha inviato un messaggio al suo allievo di punta. Sono con te. Forse non potrò correre veloce come te, ma ho fatto e continuerò a fare parte di questo viaggio con te”. Stava inviando un messaggio di appartenenza e di sacrificio reciproco all’uomo che di lì a poche ore si sarebbe schierato contro i migliori del mondo. Che l’impegno è quello che conta e che siamo entrambi qui per dare il massimo. Stava spostando le aspettative dei suoi atleti, liberandoli di fronte alle prestazioni. Non deve sorprendere che Cerutty abbia scritto in seguito: “Le grandi prestazioni sono il risultato del valore intrinseco trovato e sviluppato nell’individuo”. Elliott ha poi vinto la medaglia d’oro olimpica nei 1500 metri, stabilendo un record olimpico e mondiale.
Otto anni prima, ai Giochi Olimpici del 1952, Emil Zatopek avrebbe compiuto l’impensabile. Vinse i 5 km, i 10 km e la maratona alle stesse Olimpiadi. Un’impresa che a tutt’oggi non è mai stata eguagliata. Se si guardava Zatopek correre, non era bello. Le sue spalle si incurvavano, il suo volto si contorceva per il dolore. Il soprannome del corridore ceco rivelava ciò che la gente pensava di lui: “La bestia di Praga”. E se c’è una cosa su cui tutti concordano è che era un duro.
Zatopek non solo portò a termine l’insondabile, ma il suo allenamento era altrettanto al di là di ciò che la maggior parte delle persone riteneva umanamente possibile. Era famoso per le infinite ripetizioni dei 400 metri, spesso 50 di fila. Si tratta di un sacco di giri di pista a velocità sostenuta. Di tanto in tanto si allenava anche con gli stivali dell’esercito e ha persino provato a correre portando la moglie sulle spalle per rendere la corsa più impegnativa.
Ma pochi giorni prima che Zatopek iniziasse il suo tentativo di triplo storico, dormiva all’aperto. Non perché avesse bisogno di aria fresca. È perché un uomo anziano si era intrufolato nel blocco orientale del villaggio olimpico e lui temeva che quell’uomo potesse finire nei guai. Quando le autorità lo hanno scoperto, Zatopek è stato rimproverato per aver permesso a una “spia occidentale” di entrare in mezzo a loro. Quella “spia”? Percy Cerutty.
La generosità di Zatopek non si limitò ad aiutare Cerutty. Anni dopo, nel 1966, dopo che la sua carriera di corridore era cessata, Zatopek invitò il nuovo re della corsa su distanza, Ron Clarke, a correre in una gara di atletica nella sua terra natale. Clarke aveva stabilito un record mondiale dopo l’altro, abbassando i 5 km di un fenomenale 19 secondi. Tuttavia, l’unica medaglia olimpica di Clarke fu un bronzo. Il suo stile di corsa in testa non si è tradotto in gare di campionato.
Dopo la conclusione dell’incontro, Zatopek accompagnò Clarke all’aeroporto. Quando Clarke entrò nel piano, Zatopek gli consegnò discretamente una piccola scatola, poi se ne andò rapidamente. Clarke era perplesso e un po’ nervoso. Perché Zatopek gliel’aveva consegnata con discrezione e poi se n’era andato rapidamente? A metà del volo aprì la scatola. Era una medaglia d’oro olimpica che Zatopek aveva vinto nel 1952 nei 10 km. Un biglietto diceva: “Non per amicizia, ma perché te lo meriti”.
Fai le cose difficili (In Inglese)
Do-Hard-Things-Why-We-Get-Resilience-Wrong-and-the-Surprising-Science-of-Real-Toughness-Steve-Magness-Z-Library_organizedQueste due storie incarnano ciò che ho cercato di fare in Do Hard Things. (Sopra) Spesso pensiamo che per vincere sia necessario un atteggiamento di “vittoria a tutti i costi”. Pensiamo che la durezza sia definita da un senso esterno di forza e machismo. Ma Cerutty e Zatopek indicano qualcosa di molto più profondo. Che è la genuina forza interiore che conta. Che, nel caso di Zatopek, è possibile essere tra i migliori della storia ed essere un’anima gentile e altruista, disposta a dare via qualcosa per cui molti sarebbero quasi morti.
O, nel caso di Cerutty, che la vera durezza deriva dall’essere in viaggio con l’altro, che si tratta dello sforzo più che del risultato. O, come disse in seguito il suo famoso allievo Herb Elliott a proposito dei suoi eccentrici metodi di allenamento: “Alla base di tutto c’era una sorta di sana filosofia basata su Miglioriamo noi stessi come esseri umani, diventiamo più compassionevoli, diventiamo più grandi, diventiamo più forti, diventiamo persone più gentili”.
Do Hard Things non riguarda solo la corsa. È un libro per la vita, lo sport, l’educazione dei genitori e molto altro. Si tratta di ridefinire la durezza. Lontano dal modello che pensavamo funzionasse nel calcio delle scuole medie. Lontano dal capo autoritario, controllante e micromanager. E verso un modello che funziona davvero. Quello esemplificato da Zatopek e Cerutty. Questo dimostra che si può essere i migliori al mondo, inseguire l’eccellenza ed essere un essere umano decente che si preoccupa e vuole che gli altri crescano e si sviluppino.
Steve Magness
Fonte: scienceofrunning.com
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